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La Turchia e la diplomazia dell’acqua

Dicembre 11, 2021

* L’immagine di copertina di questo report è stata presa dal sito Engineering Channel, consultabile al seguente link: https://engineering-channel.com/ataturk-dam/

L’Anatolia non ha mai ricoperto un ruolo di primaria importanza nei piani di sviluppo ideati prima a Istanbul e successivamente ad Ankara. Fin dai tempi dell’Impero Ottomano, infatti, quel grande altopiano roccioso ha rappresentato una costante fonte di preoccupazione dovuta in massima parte alle tensioni sociopolitiche che ciclicamente vi si verificavano. Curdi, Armeni, ma anche tribù di Turcomanni, hanno causato durante tutta la seconda metà del XIX secolo grossi grattacapi a vari sultani e gran visir, i quali iniziarono presto a considerare l’Anatolia come un “fastidioso territorio” popolato da etnie ostili al controllo esercitato dalla Sublime Porta. Anche in seguito al 1923, ovvero dopo la rovinosa dissoluzione dell’impero e la nascita del moderno Stato turco sotto la guida di Mustafa Kemal, l’Anatolia fu il territorio che ricevette meno attenzioni rispetto ad altre aree del Paese che necessitavano di sviluppo infrastrutturale. Lo stesso Atatürk predilesse le regioni occidentali affacciate sul Mar Egeo e la parte settentrionale, la cosiddetta regione del Ponto, bagnata dal Mar Nero. Subito dopo aver preso il potere, il leader turco espresse la sua volontà di ammodernare la nuova repubblica sorta dalle ceneri imperiali con quella che lui riteneva l’infrastruttura più strategica per quei tempi: la ferrovia. A tal proposito, nel 1933, ovvero nel decimo anniversario della fondazione della Repubblica di Turchia, i Kemalisti orgogliosamente erano soliti cantare ai comizi del loro leader: «abbiamo intessuto l’intera madrepatria con maglie di ferro» [1]. Ed in effetti, stando ai dati, alla morte di Atatürk avvenuta per cirrosi epatica nel 1938, la Turchia aveva circa il 50% di km di ferrovia in più rispetto al 1923. In questo anno, infatti, i km di strada ferrata in tutto il Paese erano 4.137 e 15 anni più tardi 6.149. Ne erano stati aggiunti ben 2.012 [2].

Nonostante l’evidente sviluppo realizzato durante il governo kemalista in varie regioni del Paese, come detto l’Anatolia non ricevette particolare attenzione. Sui circa 2.000 km di ferrovia costruiti dal 1923 al 1938, solo poche decine vennero effettivamente realizzati in loco. Le ragioni furono per lo più due. In primis, la natura scoscesa del territorio, caratterizzato da alte vette e profonde gole, non favorì di certo la costruzione di binari e banchine. In secondo luogo, l’Anatolia era (ed è) dimora di milioni di Curdi, una forte minoranza etnica oltremodo restia ad essere integrata nel tessuto socioculturale turco. Uno sviluppo infrastrutturale di questo territorio avrebbe potuto facilitare le ribellioni contro il governo di Ankara e indebolire in maniera preoccupante il controllo esercitato dalle autorità turche sul fronte orientale. Per questo motivo, dunque, anche nei decenni che seguirono la prematura dipartita di Atatürk, l’Anatolia continuò ad essere vista con malcelato sospetto nei palazzi del potere. Sostanzialmente, si preferì lasciare il grande altopiano in una condizione di perenne sottosviluppo onde prevenire potenziali minacce.

Questa situazione iniziò a cambiare a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando vari leader e tecnici turchi rivalutarono in chiave positiva il ruolo che l’Anatolia avrebbe potuto giocare per tutto il Paese. Turgut Özal, storica figura politica turca di origine curda nonché ex Primo Ministro tra il 1983 e il 1989, fu tra i primi a sostenere un deciso cambio di rotta in tal senso. Egli, sapientemente, riconobbe la ricchezza intrinseca di questo immenso e selvaggio territorio: l’acqua. L’altopiano anatolico, infatti, è un gigantesco serbatoio idrico che fornisce acqua a milioni di individui sotto varie forme. Molti fiumi di grande portata, tra cui gli iconici Tigri ed Eufrate, nascono proprio dalle montagne anatoliche; inoltre, i numerosi ghiacciai presenti nella regione contribuiscono a rifornire costantemente molte fonti d’acqua dolce. Per non parlare poi dei grandi depositi di acque sotterranee, le cui stime sono difficili da quantificare ma che danno una chiara idea di quanto l’Anatolia sia letteralmente una delle più estese riserve idriche del mondo. Tutto ciò ha un valore strategico molto significativo, soprattutto se si volge lo sguardo alle zone semi-desertiche dell’altopiano arabico e del Vicino Oriente.

L’obiettivo di questo report è quello di analizzare la politica idrica turca in seguito ai grandi investimenti che, a partire dai primi anni Ottanta, Ankara ha realizzato proprio in Anatolia. A differenza del passato, infatti, il grande altopiano orientale è diventato essenziale nei piani di sviluppo turchi, non solo per quanto riguarda il fronte interno, ma soprattutto per ciò che concerne le relazioni con i vicini arabi. Vista la propria posizione geografica dominante, la Turchia esercita un ruolo di primissimo piano nella regione mediorientale, essendo il cosiddetto upstream country, ovvero il Paese a monte in grado di disporre delle risorse idriche a vantaggio o a detrimento dei downstream countries, i Paesi a valle. In virtù di ciò, Ankara è un attore di primissimo piano nella “diplomazia dell’acqua”.

Oro blu: la ricchezza della Turchia risiede in Anatolia

Il primo grande investimento turco in Anatolia in materia idrica si verificò agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Stiamo parlando del “Progetto dell’Anatolia Sud-Orientale”Güneydoğu Anadolu Projesi, (da qui in avanti GAP). È un’opera imponente che prevedeva la costruzione di numerose infrastrutture idriche sul Tigri e sull’Eufrate, per l’esattezza 22 dighe e 19 centrali idroelettriche. Nel 1977 vennero definiti concretamente i dettagli da un punto di vista ingegneristico e finanziario, mentre la costruzione vera e propria iniziò nel 1981. Per la sua dimensione tecnica, il GAP è di gran lunga la più grande infrastruttura idraulica turca e una delle maggiori al mondo. Il costo del progetto, la cui conclusione era inizialmente prevista per il quinquennio 2015-2020, si aggirava attorno ai 32 miliardi di dollari. Si tratta di un investimento molto corposo per un Paese come la Turchia che, tradizionalmente, non ha mai navigato in floride acque finanziarie ma che, anzi, ha più volte sofferto di crisi monetarie dovute a precipitose svalutazioni della Lira [3]. Un passo così importante a livello finanziario la dice lunga su quanto l’Anatolia abbia progressivamente assunto un ruolo primario nelle politiche strategiche di Ankara.

Fig. 1: Il GAP turco e le relative province interessate
Fig. 2: Proiezione del GAP sul territorio turco

Ad onor del vero, fu lo stesso Atatürk che per primo teorizzò l’importanza dello sviluppo idrico turco. Fin dalla fine degli anni Venti egli espresse più volte la volontà di sfruttare le grandi risorse d’acqua possedute dalla Turchia. Come detto, l’Anatolia è oltremodo ricca da questo punto di vista; tuttavia, si tenga presente che anche altre regioni del Paese sono ben servite a livello idrico, soprattutto nella parte occidentale dove grandi depositi di acque sotterranee garantiscono un soddisfacente approvvigionamento idrico per molte comunità. In quegli anni però, i problemi di cui era affetta la Turchia erano molti, tra cui una cronica mancanza di sviluppo in molte aree del Paese e una società conservatrice poco avvezza alla modernità. Di conseguenza, pur avendo intuito il potenziale idrico di cui disponeva la nuova repubblica, Atatürk fu costretto ad occuparsi di altre questioni decisamente più impellenti [4]. In ogni caso, solo in seguito ai progressi tecnologici verificatisi durante gli anni Sessanta e Settanta, gli ingegneri turchi hanno potuto realizzare dei progetti infrastrutturali in grado di usare l’acqua come fonte di sviluppo energetico ed economico, oltre che come mezzo di sostentamento.

Il GAP si trova nella parte sud-orientale dell’Anatolia, copre circa 73.000 chilometri quadrati, pari al 9.5 % del territorio turco, e serve più o meno direttamente 5.5 milioni di cittadini, pari all’8.5 % dell’intera popolazione. Come accennato in precedenza, questo grande complesso idraulico ha una duplice valenza per la Turchia. Sul fronte interno, Ankara mira a favorire lo sviluppo regionale anatolico in seguito ai grandi investimenti realizzati nel corso degli ultimi decenni. Nonostante il GAP, infatti, la regione resta oltremodo sottosviluppata sotto molti punti di vista, in particolar modo a livello infrastrutturale ed economico. Sono presenti poche strade e se si escludono gli aeroporti di Batman e Gaziantep, l’Anatolia non ha praticamente strutture di collegamento. In conseguenza di ciò, anche sul fronte produttivo la situazione non è delle migliori. L’industria non ha un impatto significativo sulla regione [5], motivo per cui il tasso di disoccupazione è molto alto, anche per gli standard turchi. Per questo motivo, nei piani di Ankara il GAP potrebbe costituire una sorta di volano per incrementare le condizioni di un territorio storicamente affetto da un cronico sottosviluppo. I capi saldi di questa strategia risiederebbero nel cosiddetto “sviluppo integrato”, ovvero nella promozione di benessere e ricchezza generalizzata a seguito della costruzione di dighe e centrali idroelettriche. Una volta entrate in funzione, queste strutture necessitano di personale specializzato, tecnici ed operai addetti alla manutenzione. Questo vuol dire una presenza costante sul territorio di individui stipendiati dallo Stato che devono vivere, mangiare e presumibilmente svagarsi in Anatolia. Dunque, come una sorta di moltiplicatore keynesiano di matrice turca, il GAP apporterebbe benefici a tutta la regione da un punto di vista produttivo. Infatti, se i cittadini interessati direttamente dalla produzione di energia idroelettrica sono circa 5.5 milioni, a livello indiretto si stima che l’indotto possa interessare 9.5 milioni di individui, generando dunque una ricchezza che altrimenti non sarebbe possibile [6].

Anche sul fronte estero il GAP svolge un ruolo di primissimo piano per la Turchia, da sempre attore mediorientale fortemente interessato ad esercitare un peso significativo nel contesto regionale. Come è noto, sono molteplici i fronti su cui Ankara si è impegnata con assiduità, sia in Medio Oriente che in Nord Africa. Basti pensare alle varie operazioni che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni in Siria [7] e allo sfrontato attivismo turco in Libia [8]. Tuttavia, tale spregiudicatezza militare comporta dei grossi rischi a fronte di risultati spesso non certi. Prima di tutto, in termini economici. Trattandosi, come abbiamo visto, di un Paese finanziariamente non molto ricco, le spese militari gravano enormemente sulle casse statali, sempre più scarne dopo l’ennesima crisi monetaria del 2018. In aggiunta, le operazioni belliche comportano dei costi anche in termini di vite umane. È opportuno precisare che l’esercito turco (Türk Ordusu) è molto efficiente, numeroso [9] e tecnologicamente avanzato. Tuttavia, non di rado si verificano incidenti gravi in grado di destabilizzare persino una società avvezza ad un clima di tensione come quella turca. Per citare un caso abbastanza significativo, il 28 febbraio 2020 sono stati uccisi più di 35 soldati in seguito ad un raid di rappresaglia condotto dall’aviazione di Damasco. Si è trattato di un bilancio pesantissimo, una vera e propria strage commessa peraltro in un solo giorno di combattimenti.

È in questo quadro oltremodo spinoso che si inserisce il GAP nella politica estera turca. La costruzione delle numerose centrali idroelettriche e dighe sul territorio anatolico ha dato un grande vantaggio ad Ankara, soprattutto per ciò che concerne la regolazione dei flussi idrici verso i Paesi a valle, su tutti Siria ed Iraq. La gestione del grande progetto idraulico conferisce alla Turchia un potere che, molto probabilmente, non potrebbe raggiungere neanche se dislocasse sul campo tutto il suo numeroso esercito. Le due nazioni arabe, infatti, che storicamente dipendono molto in termini di approvvigionamento idrico dal Tigri e dall’Eufrate, sono state decisamente penalizzate dalla costruzione del GAP. Non a caso, in passato le tensioni tra la Turchia e i propri vicini sono state molto accese a causa di questioni idriche. Con la Siria, in particolar modo, si arrivò sull’orlo di una vera e propria Water War quando Ankara minacciò sostanzialmente di “chiudere i rubinetti” dell’Eufrate se Damasco non avesse espulso Abdullah Öcalan, storico leader curdo fondatore del PKK che aveva trovato rifugio in Siria a partire dal 1979. Dopo alcune settimane di crisi diplomatica, le relazioni tra i due Paesi vennero ricomposte, evitando dunque di dar vita ad un sanguinoso conflitto incentrato proprio sull’accesso all’acqua negato alla Siria da parte della Turchia. In seguito alla grave minaccia turca, Öcalan venne in effetti espulso dal Paese arabo, suo rifugio per quasi 20 anni. Il GAP venne dunque utilizzato come un’arma in chiave geopolitica per costringere la Siria a seguire il volere di Ankara. Il 20 ottobre 1998 Turchia e Siria firmarono un importante documento che sanciva la definitiva distensione dei rapporti diplomatici: il Protocollo di Adana. A seguito di ciò, i Turchi si impegnavano a far affluire in maniera regolare l’acqua dell’Eufrate in territorio siriano mentre Damasco cancellava lo status di rifugiato politico a Öcalan, costringendolo ad espatriare nuovamente.

La disputa turco-siriana risolta in seguito alla firma del Protocollo di Adana è emblematica di quanto il GAP sia divenuto un vero e proprio strumento nelle mani della diplomazia di Ankara. Una questione spinosa che si trascinava tra alti e bassi da quasi venti anni venne di fatto risolta definitivamente nel giro di poche settimane senza sparare un colpo di fucile. La Siria è un Paese oltremodo vulnerabile dal punto di vista idrico, in prospettiva persino più dell’Iraq, dove sono presenti delle riserve idriche di tutto rispetto nella parte centrale e meridionale del territorio nazionale. Oltre alla presenza sia del Tigri che dell’Eufrate per larghi tratti [10], si prenda in considerazione il lago Buhayrat al-Thartar (2.710 km quadrati), il lago Milh (1.562 km quadrati) e il lago Qadisiyah (lungo oltre 100 km).

Fig. 3: Visione aerea del lago Buhayrat al-Thartar
Fig. 4: Visione aerea del lago Milh
Fig. 5: Visione aerea del lago Qadisiyah

Queste sono solo le riserve d’acqua dolce più importanti a disposizione di Bagdad; oltre a ciò, vanno considerate le miriadi di altri piccoli laghi e corsi d’acqua che contribuiscono a rendere l’Iraq centro-meridionale una terra se non rigogliosa, quantomeno ben servita da un punto di vista idrico. Tutt’altro dicasi per la Siria, il cui unico grande fiume (l’Eufrate) scorre per un breve tratto sul territorio nazionale [11] prima di entrare in Iraq. Anche a livello lacustre la situazione non è delle migliori, visto che l’unico grande bacino idrico è artificiale e dipende per il 95% dall’afflusso proveniente dal fiume Eufrate. Stiamo parlando del lago Assad (610 chilometri quadrati), venutosi a costituire in seguito alla costruzione della diga di Tabqa nel 1973.

Fig. 6: Visione aerea del lago Assad
Fig. 7: Diga di Tabqa da cui si formò il lago Assad

Una situazione così complessa a livello idrico rende la Siria di fatto ostaggio perenne della Turchia, soprattutto in seguito alla costruzione del GAP. Quest’ultimo ha da tempo cessato di svolgere il ruolo di semplice progetto di sviluppo anatolico; al contrario, si è progressivamente affermato come la principale freccia geopolitica nella faretra di Ankara, che storicamente considera il Vicino Oriente siriano ed iracheno come una sorta di “cortile di casa” su cui esercitare un’influenza ben maggiore di quella tollerata dalla Comunità Internazionale. Poco più di un secolo fa, infatti, queste terre erano alle dirette dipendenze del Sultano ottomano, il quale esercitava un controllo pedissequo su milioni di persone e su centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Oggi il contesto storico è decisamente cambiato; tuttavia, il GAP consente alla Turchia di esercitare una funzione di controllo molto importante sull’intera regione mediorientale, per certi versi comparabile a ciò che si verificava ai tempi dei millet ottomani [12] sul suolo arabo. Questa situazione è dovuta in massima parte all’assenza di una legislazione internazionale che supervisioni in modo efficiente la condotta degli upstream countries nella gestione dell’acqua.

Nel 1997 l’ONU tentò di porre rimedio diramando un documento, la UN Watercourse Convention. Tuttavia, come la maggior parte delle convenzioni, anche questa aveva un carattere essenzialmente programmatico e mancava della necessaria forza giuridica per impedire ad uno Stato di esercitare il proprio volere in maniera indipendente. In aggiunta, a differenza di Siria ed Iraq che ratificarono l’atto, la Turchia non ha provveduto in tal senso, disconoscendo di fatto il documento delle Nazioni Unite. Ed in effetti, stando ad alcuni passaggi della convenzione, una ratifica da parte di Ankara avrebbe compromesso sensibilmente le proprie prerogative in materia di gestione del flusso idrico verso i downstream countries. Nel concreto, l’articolo 5 della Watercourse Convention prevedeva una “equa distribuzione” delle risorse derivanti dai corsi d’acqua per tutti i Paesi rivieraschi, l’articolo 7 sanciva una “no harm rule” nella gestione di fiumi trans-frontalieri e l’articolo 11 obbligava le nazioni a monte a notificare in via preventiva ai governi dei Paesi a valle eventuali lavori di sviluppo sui fiumi o sui laghi in comune. La ratifica del documento proposto dall’ONU avrebbe sostanzialmente reso il GAP un’infrastruttura idrica valida solo per fini interni, cancellando di fatto il grande ruolo geopolitico che ha svolto e continua tutt’ora a svolgere per la diplomazia di Ankara nel Medio Oriente arabo.

L’acqua al servizio della diplomazia turca

Ankara ha sovente utilizzato le proprie risorse idriche come mezzo diplomatico per stabilire delle proficue relazioni nel contesto mediorientale. Non sempre, infatti l’acqua è stata usata come strumento offensivo per piegare recalcitranti Paesi (tipo la Siria) alle strategie geopolitiche turche. In questa sezione si prenderanno in esame tre casi specifici, verificatisi a distanza di molti anni, che danno una chiara idea di quanto i Turchi utilizzino la propria ricchezza idrica sul piano delle relazioni internazionali.

Peace Water Pipeline Project

Il primo caso riguarda il cosiddetto “Peace Water Pipeline Project”. Teorizzato da Turgut Özal nei primi ani Ottanta, ovvero durante la prima fase della costruzione del GAP, questo grande progetto mirava a realizzare delle gigantesche tubature che avrebbero portato milioni di metri cubi d’acqua in molte aree del Medio Oriente dove l’approvvigionamento idrico era (ed è tuttora) oltremodo deficitario. Così come ideato in via originaria, tale progetto avrebbe effettivamente modificato in meglio le condizioni di molte persone, dal momento che avrebbe sostanzialmente messo a disposizione di milioni di cittadini arabi le abbondanti risorse idriche turche. Le infrastrutture da costruire erano due: la prima, chiamata Western Route, aveva una lunghezza di 2.650 km e una portata d’acqua giornaliera di 3.5 milioni di metri cubi. Secondo i piani, questa tubatura occidentale avrebbe avuto come capolinea la Mecca e avrebbe attraversato Hama, Homs, Damasco, Amman, Yanbù e Medina. Dunque, i Paesi coinvolti direttamente sarebbero stati Siria, Giordania ed Arabia Saudita. La seconda, definita Eastern o Gulf Route, si sarebbe estesa in profondità nell’Asia occidentale e avrebbe raggiunto il Kuwait, il Bahrain, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti dopo aver transitato in Siria e in Giordania. Era più lunga della prima, quasi 3.900 km in totale, con una capacità inferiore, circa 2.5 milioni di metri cubi d’acqua giornalieri.

Fig. 8: Le pipelines inizialmente proposte dal governo turco

Il costo stimato di questa rivoluzionaria e maestosa opera ingegneristica era cospicuo, circa 20 miliardi di dollari. I fiumi da cui sarebbe stata prelevata l’acqua erano il Ceyhan e il Seyhan, due corsi d’acqua che nascono e scorrono interamente in Turchia prima di sfociare nel Mar Mediterraneo. Dunque, da un punto di vista delle relazioni internazionali non sarebbero sorti particolari questioni, dal momento che nessuno Stato rivierasco si sarebbe lamentato di un minor afflusso idrico in seguito all’utilizzo delle acque da dirottare tramite le tubature. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni e l’oggettivo beneficio che questo progetto avrebbe apportato a moltissime famiglie arabe, il Peace Water Pipeline non si realizzò mai. I motivi furono molti. Prima di tutto, la sua effettiva realizzazione avrebbe dato alla Turchia un potere enorme su quasi tutti i Paesi mediorientali. In seguito alla finalizzazione del progetto, Ankara avrebbe di fatto assunto il ruolo di deus ex machina in una questione di essenziale rilevanza per il Medio Oriente: l’approvvigionamento idrico. Molti governi dei Paesi coinvolti, infatti, dopo un’iniziale tiepida accoglienza si sono mostrati poco inclini a procedere nella direzione indicata dalla Turchia. Inoltre, la costruzione di una infrastruttura a tutti gli effetti turca su territori di pertinenza di altri Paesi avrebbe sollevato questioni di sovranità nazionale, soprattutto a causa del passato ottomano. Per molti analisti il Peace Water Pipeline avrebbe consentito ad Ankara di esercitare una grande pressione in aree situate a molti chilometri di distanza dai propri confini nazionali, sancendo di fatto un’influenza geopolitica che non si vedeva dai tempi dei sultani ottomani. Anche sul fronte dei costi si sollevarono numerose questioni, dal momento che la costruzione delle tubature avrebbe comportato un esborso significativo soprattutto per i Paesi del Golfo. Secondo i piani di Ankara, infatti, le ricche monarchie del Golfo avrebbero dovuto sostenere la quasi totalità dei costi di costruzione. In sostanza, i Turchi miravano ad incrementare esponenzialmente la propria influenza nella regione a fronte di un impegno finanziario assai modesto.

Bahrain e Qatar si defilarono presto da questo progetto ritenuto eccessivamente oneroso a livello economico; anche l’Arabia Saudita si mostrò oltremodo scettica sull’effettiva fattibilità del Peace Water Pipeline. In alternativa, Riad propose di incrementare l’utilizzo di dissalatori [13]. In questo modo, secondo i tecnici sauditi, i costi sarebbero stati molto più contenuti e non si sarebbe alterata la geopolitica mediorientale, i cui sviluppi sarebbero stati imprevedibili per i decenni successivi. Dunque, per tutta una serie di motivi ascrivibili per lo più alla sfera politica ed economica, il progetto turco non venne realizzato.

Progetto Manavgat

Il secondo caso oggetto d’esame in questo report riguarda un significativo avvicinamento diplomatico tra Turchia ed Israele proprio tramite un accordo per una fornitura idrica. La politica estera turca non ha mai rinunciato ad una collaborazione stretta con lo Stato ebraico anzi, in alcuni casi l’ha convintamente sollecitata, in particolare per ciò che concerne il settore agricolo e idrico. Israele attualmente è uno dei Paesi che soffre di meno lo stress idrico nell’intera regione mediorientale, che come sappiamo, è sovente soggetta a momenti di pressione e tensione non indifferente dovuta a casi gravi di water scarcity. Il motivo principale che ha di fatto reso Tel Aviv immune dai problemi legati all’approvvigionamento idrico risiede nel massiccio utilizzo di dissalatori di ultima generazione che garantiscono allo Stato ebraico oltre il 60% del proprio fabbisogno in termini di acqua per uso domestico. A partire dal 2008, Israele iniziò a investire molte risorse nella produzione di apparecchiature in grado di rendere utilizzabile l’acqua marina. Lo Zuckerberg Institute for Water Research, uno dei principali centri di ricerca del Paese, è stato determinante in tal senso, fornendo studi, soluzioni ingegneristiche e strategie che hanno di fatto trasformato uno Stato semi-desertico in un luogo dove la presenza dell’acqua può tranquillamente essere definita abbondante.

Tuttavia, fino a pochi lustri fa Israele non se la passava così bene da un punto di vista idrico. Proprio il 2008 è stato un anno spartiacque, visto che fino a quel momento si stava consumando una gravissima e lunga crisi idrica che aveva messo in ginocchio le economie e le società di molti Stati mediorientali. Una siccità che durava da circa un decennio aveva bruciato la Mezzaluna Fertile causando enormi disagi. La maggiore fonte di acqua dolce di Israele, il Lago di Tiberiade, era sceso quasi al limite della “linea nera”, sotto la quale il lago avrebbe subito un danno irreversibile in termini di capacità idrica. Per far fronte a questa situazione drammatica vennero imposte restrizioni sull’uso dell’acqua, e molti agricoltori persero il raccolto di un anno.

Fig. 9: Lago di Tiberiade
Fig. 10: Stato di Israele

La crisi idrica che stava attraversando Israele avrebbe potuto causare ancora più danni se non si fosse realizzato il Progetto Manavgat. In sostanza, lo Stato ebraico aveva concordato con la Turchia un accordo diplomatico secondo il quale Ankara si impegnava ad inviare navi cisterna piene di acqua sulle coste israeliane allo scopo di mitigare la perdurante crisi di approvvigionamento idrico. Il nome del progetto deriva dalla città turca Manavgat, da cui sarebbero partite gigantesche navi o contenitori galleggianti trainati da rimorchiatori, eventualmente scortati dalla marina militare, alla volta di Israele. L’acqua turca avrebbe supportato anche la Giordania [14] e la Palestina, anch’esse afflitte da una preoccupante scarsità di acqua sia per uso domestico sia a livello produttivo. L’accordo venne siglato nel luglio del 1999, quando Suleyman Demirel, allora presidente della Turchia, si recò a Gerusalemme per formalizzare i dettagli. Un paio di anni dopo, una volta portate a compimento tutte le necessarie pratiche diplomatiche, anche l’allora Ministro degli Esteri israeliano David Levy annunciò in via ufficiale che la Turchia si sarebbe impegnata a fornire allo Stato ebraico circa 50 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. La fornitura sarebbe iniziata nell’estate 2001.

Il Progetto Manavgat avvicinò diplomaticamente in maniera ulteriore Turchia e Israele. Nonostante alcune dichiarazioni turche reiterate nel tempo a favore della Palestina, i rapporti tra queste due potenze regionali sono stati storicamente molto stretti. Fin dai tempi dell’Impero Ottomano, infatti, Turchi ed Ebrei hanno stabilito delle proficue relazioni. Fu Solimano il Magnifico ad invitare le comunità ebraiche perseguitate ed espulse dalla Spagna ad insediarsi ad Istanbul e a ricominciare una nuova vita alla corte del sultano. Proprio all’interno dei confini dell’Impero Ottomano fiorirono numerose comunità di origine ebraica, una su tutte la numerosa e fiorente compagine ebraica di Salonicco, città strategicamente molto importante per la Sublime Porta. Ancora oggi, sia ad Istanbul che a Salonicco [15], sono presenti molti discendenti di quelle famiglie che trovarono rifugio presso gli Ottomani. L’accordo idrico siglato a cavallo tra Ventesimo e Ventunesimo secolo sancì ancora una volta la grande amicizia tra questi due popoli.

La “diga dell’amicizia” nella Provincia di Hatay

Il terzo ed ultimo caso oggetto di esame riguarda un inaspettato riavvicinamento diplomatico verificatosi tra Turchia e Siria proprio in virtù di una cooperazione in materia idrica. Stiamo parlando del progetto di costruzione di una diga congiunta sul fiume Oronte, un corso d’acqua non particolarmente rilevante né grande in termini di estensione. La lunghezza totale del fiume è di 404 km, di cui 38 km scorrono in Libano, 280 km in Siria, 27 km lungo il confine siro-turco e 59 km in Turchia. Tuttavia, la rilevanza del fiume risiede nella sua posizione geografica. Esso è un fiume transfrontaliero tra Turchia e Siria che, prima di sfociare nel Mar Mediterraneo, scorre nella provincia di Hatay. Quest’ultima fa attualmente parte come sessantatreesima provincia del territorio nazionale turco; tuttavia, lo status di questo territorio è stato per molti anni controverso. Durante il dominio ottomano, Hatay faceva parte del Vilayet di Aleppo nella Siria ottomana. Dopo la Prima Guerra mondiale, Hatay (allora conosciuta come Alessandretta) entrò a far parte del Mandato francese di Siria, poiché la Sublime Porta aveva cessato di esistere in seguito al disastroso esito del conflitto. Sotto la nuova amministrazione europea, Alessandretta fu confermata come territorio ufficiale siriano nel Trattato di Losanna (1923), concordato da Mustafa Kemal Atatürk, il futuro leader della Repubblica di Turchia.

Fig. 11: Provincia di Hatay
Fig. 12: Bacino idrico del fiume Oronte

Nel 1937, dopo un periodo di dispute di confine tra soldati siriani e truppe turche, Atatürk ottenne un accordo con la Francia tramite il quale Alessandretta veniva riconosciuta come Stato indipendente; due anni dopo nel 1939, Hatay, che nel frattempo era stata ribattezzata Repubblica di Hatay, venne annessa alla Turchia come sessantatreesima provincia turca a seguito di un controverso referendum [16].

A partire dal secondo dopoguerra i rapporti diplomatici tra Turchi e Siriani vennero di fatto segnati negativamente dalla vicenda di Hatay. In seguito alla forzata annessione della provincia siriana da parte di Ankara si venne a costituire un vulnus insanabile a livello diplomatico tra le due nazioni mediorientali. Questo vulnus nel corso del tempo si incancrenì sempre di più, per poi portare, come abbiamo poc’anzi visto, a delle pesanti tensioni sul piano delle relazioni bilaterali. Il Protocollo di Adana firmato nel 1998 fu il primo sostanziale riavvicinamento diplomatico tra i due Paesi dopo decenni di malcelato sospetto reciproco. Pochi anni dopo, Turchia e Siria dettero vita ad una nuova positiva fase nei loro rapporti istituzionali, ancora una volta incentrati su questioni idriche. Nel 2004, dopo aver firmato due importanti accordi finanziari [17], venne siglato un patto per la realizzazione della cosiddetta “diga dell’amicizia”, una grande infrastruttura idrica comune sul fiume Oronte. La scelta di quest’ultimo non fu fatta a caso. Prima di tutto, si tratta di un corso d’acqua di confine e non un semplice fiume transfrontaliero. A livello simbolico ciò testimonia una grande volontà di collaborazione per superare un passato oltremodo problematico a livello di relazioni bilaterali. Inoltre, la realizzazione della diga proprio nella provincia di Hatay, che per decenni era stata oggetto di dispute, aveva come scopo il definitivo superamento di un lungo periodo di tensione.

Nonostante l’indubbio valore simbolico, la diga avrebbe apportato degli effettivi vantaggi economici e di gestione idrica ad entrambi i Paesi. La Turchia, dopo la regolarizzazione del corso dell’Oronte, avrebbe prevenuto le piene stagionali del fiume che minacciano ogni anno di inondare la pianura di Amik, dove sorge l’aeroporto internazionale di Hatay. La Siria, dal canto suo, avrebbe goduto di un’altra importante risorsa d’acqua nel nord del Paese che, come sappiamo, dipende quasi interamente dal fiume Eufrate. Centri urbani di grande rilevanza come la stessa Aleppo, seconda città più grande di Siria a livello demografico, avrebbero dunque potuto contare su un’altra fonte idrica per il proprio approvvigionamento, evitando di stressare le flebili risorse provenienti dall’unico grande fiume presente nel Paese. Anche da un punto di vista economico la Siria avrebbe avuto degli indubbi benefici. I costi della “diga dell’amicizia, circa 550 milioni di lire turche [18], sarebbero stati interamente a carico della Turchia, mentre Damasco avrebbe dovuto sostenere solo le spese di esproprio per ciò che concerne il territorio siriano.

Nonostante i rinnovati buoni rapporti tra le due nazioni e i vari benefici che la diga avrebbe apportato sotto molti aspetti, questo progetto non andò in porto. In seguito allo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, che proprio nel nord del Paese ha avuto gli sviluppi più cruenti, la costruzione della “diga dell’amicizia” venne sospesa. Le violenze, le grandi incertezze dovute allo stato di guerra, il caos generalizzato hanno di fatto impedito che si realizzasse una importante infrastruttura idrica. Al momento, le tensioni in Siria sono molto più contenute rispetto a qualche tempo fa; tuttavia, i lavori per la definitiva costruzione della diga non sono ancora ripresi.

Conclusione

Nei prossimi anni il ruolo dell’acqua nelle relazioni internazionali diventerà sempre più determinante, soprattutto per quanto riguarda alcune aree del mondo soggette a perduranti crisi idriche. Il Medio Oriente è una di queste. Si tratta di una delle regioni più complesse da un punto di vista geopolitico; sono presenti conflitti etnici, tensioni settarie, fondamentalismi religiosi e aspri contrasti tra nazioni sovrane. Tuttavia, nel prossimo futuro molti analisti ritengono che gli scontri più feroci tra popoli e Stati mediorientali si verificheranno proprio a causa dell’acqua, risorsa indispensabile non solo a livello produttivo ed economico ma soprattutto per la vita umana. Il clima arido e secco, unito all’assenza di abbondanti riserve idriche per la maggior parte dei Paesi e ad una costante crescita demografica costituisce la perfetta combinazione in tal senso. La Turchia, dopo qualche lustro di ritardo, sembra aver compreso il grande ruolo che l’acqua giocherà in futuro. I grandi investimenti effettuati in Anatolia per la realizzazione del GAP testimoniano quanto Ankara consideri strategica la propria ricchezza idrica, in particolar modo se raffrontata alla difficoltosa situazione dell’altopiano arabico e del Vicino Oriente.

I tre casi analizzati in questo report danno una chiara idea del nuovo corso della politica estera turca. La cosiddetta “diplomazia dell’acqua” è una realtà a tutti gli effetti. Come abbiamo visto, dei tre casi solo uno è effettivamente andato a buon fine. Il Progetto Manavgat è infatti stato l’unico esempio positivo di accordo idrico portato effettivamente a compimento. Preme sottolineare che l’accordo per la fornitura di acqua turca ad Israele era forse il più fattibile dei tre. Sia la costruzione delle due pipelines per portare l’acqua in Arabia e presso i Paesi del Golfo sia la realizzazione della “diga dell’amicizia” al confine con la Siria avevano un certo grado di complessità realizzativa che il Progetto Manavgat non presentava.

Nonostante il “magro bottino” in termini di risultato, l’insistenza con cui i Turchi hanno puntato sulla diplomazia idrica è sotto gli occhi di tutti. Da qui a pochi anni, ovvero quando l’acqua diventerà ancora più indispensabile per un crescente numero di persone, Ankara giocherà un ruolo da assoluta protagonista. Per certi aspetti, l’acqua potrebbe costituire ciò che il petrolio è stato per le monarchie del Golfo: una grande occasione di facili guadagni economici in virtù dell’esportazione. Tuttavia, mentre il petrolio ha un enorme valore esclusivamente da un punto di vista energetico, l’acqua costituisce un indispensabile elemento per la sopravvivenza fisica degli esseri umani, oltre che una risorsa per le attività produttive. Questo conferisce al cosiddetto “oro blu” un valore ancora maggiore rispetto al petrolio, che comunque ha contribuito (e per certi aspetti ancora contribuisce) a plasmare le relazioni internazionali. Disporre di enormi risorse idriche in un contesto globale in cui ancora non è presente una solida legislazione che prevenga gli abusi in tal senso, pone la Turchia in una posizione di assoluto vantaggio.


[1] Cfr. Bruno Cianci, Sultani e infrastrutture, in «Limes», Vol. 10, 2016, p. 90.

[2] Ivi, p. 91.

[3] L’ultima grande crisi finanziaria turca in ordine di tempo risale al 2018, quando nel Paese a cavallo tra Europa ed Asia si verificò un mix di eventi decisamente preoccupanti. Nel concreto, in poche settimane sopraggiunse un crollo del valore della lira, a cui fece seguito un aumento dell’inflazione e un incremento dei costi di finanziamento per l’accesso al credito. Tutto ciò comportò un preoccupante aumento delle insolvenze sui prestiti che, in un Paese tradizionalmente debole a livello finanziario, rischiava di causare danni irreparabili ad interi settori economici. Per ulteriori dettagli si rimanda a Flavio Bini, Turchia, nuovo crollo della lira. Erdogan: “Gli Usa ci pugnalano alle spalle”, in «Repubblica», 13 agosto 2018.

[4] Le riforme che realizzò Mustafa Kemal, futuro padre della nazione turca, furono molte e abbracciarono più campi. Oltre al già menzionato sviluppo ferroviario, egli provvide a cambiare molti aspetti del Paese, soprattutto a livello socioculturale. Per citare alcune delle riforme più importanti, si pensi che rese obbligatorio per la prima volta l’uso del cognome per i cittadini turchi, adottò l’alfabeto latino (con l’aggiunta di 6 lettere), estese il voto alle donne, rese la Turchia una nazione sostanzialmente laica. Per far ciò, dovette lottare assiduamente contro le frange più conservatrici della società. Dunque, lo sviluppo delle risorse idriche non trovò un grande spazio durante il suo governo che, tutto sommato, non fu neanche molto lungo (1923-1938).

[5] Tra i centri urbani di livello solo Diyarbakır, peraltro a grande maggioranza curda, presenta uno sviluppo industriale accettabile.

[6] Per ulteriori dettagli, cfr. Mark Dohrmann & Robert Hatem, The Impact of Hydro-Politics on the Relations of Turkey, Iraq, and Syria, in «The Middle East Journal», Vol. 68 Issue 4, pp. 567–583, 2014.

[7] Concretamente, l’Operazione Shah Eufrate (2015), l’Operazione Scudo dell’Eufrate (2016-17), le Operazioni nel Governatorato di Idlib (2017-2018) e l’Operazione Ramoscello d’Ulivo (gennaio-marzo 2018). Per ulteriori dettagli si rimanda a Rashida Foulani, Turkey’s military operation in Syria: All the latest updates, in «Al-Jazeera English», ottobre 2019.

[8] A partire dal dicembre 2019, mercenari al soldo di Ankara sono intervenuti per supportare il governo di Al Serraj nella lotta contro le forze del generale Haftar. La presenza turca sul territorio libico non si vedeva dal 1911 quando, in seguito alla guerra italo-turca, gli Ottomani furono costretti a lasciare un importante presidio della Sublime Porta a vantaggio delle regie truppe di Roma. Per ulteriori dettagli si rimanda a Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Il Mulino, Bologna, 2011.

[9] È il secondo esercito numericamente più rilevante della NATO dopo quello degli Stati Uniti.

[10] Non a caso, l’Iraq è erede della Mesopotamia, letteralmente la “terra tra due fiumi”. In passato, proprio il Tigri e l’Eufrate sono stati la causa principale della cosiddetta Cradle of Civilization, la “culla della civiltà”. 

[11] Il bacino idrografico dell’Eufrate è molto scarno in Siria, dal momento che corrisponde a circa il 7.1 % del totale. Per fare un raffronto, si tenga presente che tale dato in Turchia è del 28.2 % mentre in Iraq del 39.9 %.

[12] I millet erano le suddivisioni amministrative con cui l’Impero Ottomano gestiva le proprie provincie.

[13] Il Centro Studi AB AQUA ha trattato la questione dei dissalatori in Arabia Saudita in un recente report realizzato da Filippo Verre. Per ulteriori informazioni si rimanda al seguente link: https://abaqua.it/le-politiche-idriche-dellarabia-saudita/.

[14] La Giordania è il terzo Paese più povero di risorse idriche al mondo, con un clima arido e semi-secco. Il suo intervallo di precipitazioni varia da 40 a 600 mm all’anno, che già di per sé è molto scarso, e il 92% delle precipitazioni evapora ogni anno. Per ulteriori dettagli si rimanda a Dursun Yıldız, The Peace Water Pipeline and innovative hydro-diplomacy, in «World Water Diplomacy & Science News», Gennaio 2018.

[15] Una volta sotto la giurisdizione greca la città cambiò nome e divenne Tessalonica.

[16] Il referendum con cui venne annessa la provincia di Hatay alla Turchia non fu molto regolare, visto che si segnalarono brogli in quasi tutti i seggi. Inoltre, stando ad alcune fonti, molti immigrati turchi che erano nati ad Hatay ma che risiedevano da molti anni altrove, vennero forzati a tornare dalle autorità di Ankara per votare a favore dell’annessione. Per ulteriori dettagli sulla vicenda si rimanda a Filippo Verre, Water conflicts in Western Asia: the Turkish-Syrian regional rivalry over the Euphrates River, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», Vol. 87 Issue 3, pp. 353-376, 2020.

[17] Gli accordi avevano un carattere spiccatamente commerciale, a testimonianza della nuova fase distensiva tra le due nazioni. Nel dettaglio, venne firmato un accordo sulla prevenzione della doppia imposizione fiscale e un accordo sulla mutua promozione e protezione degli investimenti. Cfr. Verre, ivi, p. 363.

[18] Circa 75 milioni di dollari.

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