* L’immagine di copertina di questo paper è stata presa dal sito Kyivpost, consultabile al seguente link: https://www.kyivpost.com/article/content/war-against-ukraine/north-crimean-canal-supplied-with-water-from-two-reservoirs-348206.html
Nel corso degli ultimi mesi, numerosi dossier, report e approfondimenti di vario genere sono stati realizzati – sia in Italia che in tutto il mondo – con il precipuo obiettivo di comprendere i motivi che hanno spinto Mosca ad invadere l’Ucraina. Sono stati presi in considerazione fattori strategici di varia natura, motivazioni ideologiche, politiche ed economiche, oltre a richiamare nel dettaglio il peculiare rapporto tra Ucraina e Russia, da secoli molto stretto. Sorprendentemente, poco o nulla è stato scritto su una questione decisamente primaria che ha di gran lunga contribuito ad incancrenire un rapporto – quello tra Kiev e Mosca – già molto precario a partire dal 2014: il fattore idrico. Ebbene sì, l’acqua, o meglio il controllo dell’acqua, ha giocato un ruolo determinante nelle relazioni tra i due contendenti. Infatti, soprattutto per quanto riguarda il fronte meridionale, la Russia ha attaccato il territorio sottoposto al controllo ucraino proprio per garantire alla Crimea, penisola de facto ad appannaggio di Mosca dal febbraio 2014, l’approvvigionamento idrico necessario per dare sostentamento ai circa due milioni di residenti crimeani. In seguito alla costruzione di una diga da parte delle autorità ucraine nel 2014 nell’oblast di Kherson, non lontano dal confine con la Crimea, la penisola sottoposta al controllo russo aveva subito un netto taglio alle forniture di acqua, in gran parte assicurate da un canale artificiale: il North Crimean Canal. Tra le varie ragioni che hanno spinto la Russia ad attaccare l’Ucraina, dunque, vi è anche una motivazione idrica.
North Crimean Canal: dati e rilevanza strategica
Il North Crimean Canal (NCC) è una struttura idraulica estremamente strategica per l’approvvigionamento idrico della Crimea. Quest’ultima ha un territorio abbastanza arido, dove non sono presenti corsi d’acqua naturali di grande rilievo in grado di irrorare del prezioso liquido le campagne della penisola. Costruito in epoca sovietica tra il 1961 e il 1975, il NCC ha contribuito grandemente a rendere la Crimea – soprattutto la parte orientale – un luogo verdeggiante ricco di colture di vario tipo[1]. Il canale, lungo 402 km, ha origine nella città di Tavriysk (Ucraina), dove attinge da alcuni grandi bacini idrici alimentati dal fiume Dnepr. Questo è uno dei corsi d’acqua più importanti d’Europa sia per lunghezza che per portata. Con oltre 2.200 km, infatti, il Dnepr è il quarto fiume più lungo del continente – dopo il Volga, il Danubio e l’Ural – ed ha un bacino idrografico davvero considerevole, ben 516.000 km². Tale dato colloca il Dnepr al terzo posto in Europa per ampiezza, dopo il Volga e il Danubio[2]. Il NCC si estende in direzione sud-est prima di terminare il suo corso artificiale nel piccolo villaggio di Zelnyi Yar nel Distretto di Lenino, in Crimea. Da lì, un acquedotto trasporta l’acqua fino alla città di Kerch, all’estremità orientale della penisola.
Come si evince dalla Fig.1, il punto di partenza del NCC ha sede nelle propaggini meridionali del bacino idrico di Kakhovka. Quest’ultimo copre una superficie totale di 2.155 km² negli oblast ucraini di Kherson, Zaporizhzhia e Dnipropetrovsk, divenuti tristemente noti in seguito alle conosciute vicende belliche. La riserva di Kakhovka ha una lunghezza di 240 km ed una larghezza di circa 23 km nel suo punto più ampio. La profondità varia da 3 a 26 metri, con una media di 8.4 metri ed un volume idrico totale pari a 18.2 km cubi.
Prima dell’annessione russa del febbraio 2014, il NCC soddisfaceva oltre l’85% del fabbisogno idrico della Crimea. Le autorità ucraine, come rappresaglia, decisero di adottare una serie di strategie per tagliare sostanzialmente l’afflusso idrico che veniva assicurato attraverso il canale. Tra le varie proposte, si segnala il già menzionato progetto (semisegreto) che prevedeva la costruzione di una diga “di sbarramento” dell’intero canale a sud di Kalanchak, a circa 16 km a nord del confine con la Crimea. Ed in effetti, i danni idrici ed ambientali che si sono verificati nella penisola a seguito della costruzione della diga nell’oblast di Kherson sono stati davvero rilevanti. Si pensi, infatti, che la penisola crimeana nel corso dei decenni era diventata un vero e proprio giardino a cielo aperto proprio grazie alle abbondanti risorse di acqua provenienti dal canale. Per avere un’idea di ciò si consideri che all’inizio degli anni Ottanta le autorità sovietiche decisero di introdurre in Crimea persino la coltivazione del riso, alimento che necessita di grandi quantitativi di acqua per ottenere una buona produzione. Diverse decine di migliaia di persone si trasferirono in Crimea tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta, attirate dal clima mite, da elevati livelli occupazionali nel settore agricolo e da un generale benessere favorito dalla ricca presenza di acqua.
Dal 2014, ovvero da quando il governo di Kiev ha di fatto interrotto l’afflusso verso valle, la Crimea ha subito una serie di gravi crisi idriche ed alimentari. Nonostante l’ingente sforzo economico e materiale della Russia per far fronte ai disagi patiti dalla popolazione, la situazione non è migliorata più di tanto. A partire dal 2017 le autorità russe, in coordinamento con il governo locale della Crimea, hanno costruito piccole centrali idroelettriche, nuovi pozzi, deviato fonti d’acqua locali, costruito un ponte dalla Russia alla penisola per il trasporto di cibo e merci e riorientato l’agricoltura verso la coltivazione di prodotti che necessitano di un minor consumo d’acqua. Tuttavia, i problemi alimentari ed elettrici dovuti allo stress idrico sono stati risolti solo temporaneamente. Questo perché, come si è detto, la penisola è di fatto quasi totalmente dipendente dall’acqua che viene trasportata attraverso il NCC. Anche le attività produttive hanno grandemente risentito delle ridotte risorse idriche. A tal proposito, si segnala il caso di Crimean Titan, il più grande produttore di biossido di titanio in Europa con sede nella penisola, che ha visto ridurre drasticamente la propria produzione tra il 2014 e il 2021[3].
Secondo diverse analisi[4], la riduzione del flusso idrico ha causato un massiccio restringimento della superficie coltivata in Crimea, che è passata da 130.000 ettari nel 2013 a soli 14.000 nel 2017. Come testimoniato nella Fig. 3, le canalizzazioni su cui facevano affidamento le autorità crimeane per attività agricole ed industriali sono presto divenute delle tristi e desolate arterie secche, impossibilitate ad apportare qualsivoglia beneficio idrico a molte comunità. In conseguenza di ciò, anche i piccoli e medi bacini idrici costruiti nel corso del tempo in Crimea hanno subìto casi di preoccupante evaporazione, aggravando in maniera ulteriore la crisi ambientale ed energetica presente nella penisola in maniera quasi ininterrotta dal 2014. Nell’estate del 2021 si è verificato il picco negativo, dal momento che, oltre all’assenza di acqua per scopi irrigui, i residenti crimeani hanno dovuto razionare per molte ore al giorno il prezioso liquido anche per bisogni di prima necessità. Nel luglio 2021, nello specifico, la diffusa carenza d’acqua ha comportato la disponibilità ad utilizzare gli acquedotti pubblici solo per tre o cinque ore al giorno.
La reazione russa: dalle proteste internazionali alla vera e propria “guerra per l’acqua”
Secondo uno studio del 2015[5], il 72% dell’acqua proveniente dal NCC era destinato all’agricoltura, il 10% alle attività industriali, mentre l’acquedotto e altri usi pubblici costituiva il 18%. Questi dati testimoniano ancora una volta l’estrema rilevanza del canale per la Crimea, in particolar modo per le attività produttive legate alla produzione agraria e industriale. Sostanzialmente, il controllo della penisola senza poter contare sulle risorse idriche garantite dal flusso proveniente dal NCC rappresentava una preoccupante situazione di stallo strategico per il Cremlino. Non è dunque errato considerare quanto, in ottica russa, il taglio delle forniture idriche da parte di Kiev abbia di fatto compromesso la buona riuscita dell’intera “operazione Crimea”. L’assenza di acqua, tra i vari fattori, ha pesato in maniera evidente sul bilancio destinato da Mosca alla gestione del nuovo territorio “acquisito” nel febbraio 2014. Stando ad alcune analisi[6], i primi cinque anni di occupazione russa della Crimea sono costati circa 1.5 trilioni di rubli, pari a oltre 20 miliardi di dollari. Si tratta un vero e proprio sproposito, a cui vanno aggiunti i mancati ricavi dovuti alla sostanziale paralisi del settore agricolo crimeano in seguito alla costruzione della “diga di sbarramento”. Inoltre, lo stanziamento di numerosi soldati russi in Crimea per prevenire eventuali reazioni militari da parte di Kiev ha pesato in modo ulteriore sulle già scarse risorse idriche presenti nella regione.
In un primo momento, la reazione di Mosca al taglio delle forniture idriche si è inserita in un contesto di diritto internazionale. Sono stati numerosi, infatti, gli appelli (caduti nel vuoto) che la Russia ha fatto presso varie corti internazionali allo scopo di costringere l’Ucraina ad allentare il blocco posto nei confronti della penisola crimeana. Espressioni come “tentato genocidio del popolo crimenano” “ecocidio” e “crisi ambientale di matrice dolosa” sono state ripetutamente utilizzate dai diplomatici russi per cercare di sbloccare una situazione di pericolosa stasi. Il fulcro della posizione russa riguardava una questione ben precisa: il blocco dell’NCC non era altro che una punizione per la decisione politica della Crimea di “riunirsi” alla madre patria. Privare gli oltre due milioni di residenti in Crimea dell’acqua necessaria anche per i bisogni primari equivaleva a contravvenire a varie leggi internazionali, oltre che a violare platealmente i diritti umani, che sanciscono in maniera inequivocabile l’accesso all’acqua come diritto fondamentale. Secondo i Russi, Kiev non ha mai cercato una soluzione di compromesso, come ad esempio la negoziazione del prezzo dell’acqua o la ripartizione dei costi in seguito alla manutenzione del canale, ma ha semplicemente soppresso la principale fonte di approvvigionamento crimeano.
Nel 2017, i dignitari russi hanno presentato una denuncia presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) contro l’Ucraina. Il governatore della Crimea – Sergei Aksyonov – ha inoltre indicato l’intenzione di presentare una denuncia separata chiedendo un risarcimento sostanzioso, affermando che l’Ucraina ha utilizzato la dipendenza idrica della Crimea dalle infrastrutture di Kiev come arma, dando vita ad un vero e proprio “atto di terrorismo di stato”[7]. Aksyonov ha apertamente criticato la Comunità Internazionale per non essere intervenuta in supporto dei residenti crimeani, lasciati di fatto da soli a gestire diverse crisi ambientali legate allo stress idrico indotto dalle azioni di Kiev.
Nonostante le proteste, la CEDU non ha accolto le posizioni russe. Nel giugno 2020, i legislatori russi si sono dunque rivolti all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) puntando su una strategia simile. Anche in questo caso, infatti, Mosca si è lamentata di come l’Ucraina avesse privato “milioni di persone del diritto fondamentale e inalienabile all’acqua potabile”[8]. Pochi mesi dopo, Il 14 settembre 2020, il Consiglio russo per i diritti umani (un organo consultivo dell’amministrazione presidenziale russa) ha presentato un altro ricorso all’OHCHR sostenendo che le azioni dell’Ucraina “contravvengono alla Convenzione delle Nazioni Unite sui corsi d’acqua transfrontalieri e sui laghi internazionali[9] e alle Norme di Berlino sulle risorse idriche[10]. Si tratta di due importanti dichiarazioni che tutelano il diritto all’acqua potabile e l’accesso alle fonti di approvvigionamento idrico da parte di tutti i popoli e Paesi facenti parte della Comunità Internazionale.
Come verificatosi con la CEDU, anche i ricorsi presentati all’OHCHR non hanno sortito l’effetto sperato da parte dei Russi. Così, Mosca ha presentato una nuova istanza presso un altro organismo internazionale. Nel marzo 2021, l’inviato del Cremlino presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) ha elencato le violazioni della Convenzione sui diritti umani e le libertà fondamentali risultanti – in ottica russa – dalla chiusura del North Crimean Canal. Nella sua denuncia, la Russia ha sostenuto che le azioni dell’Ucraina hanno violato i diritti dei residenti della Crimea ai sensi di vari articoli:
- articolo 3 (divieto di tortura);
- articolo 8 (rispetto della vita privata e familiare);
- articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione,
- articolo 1 del Protocollo 1 (diritto di proprietà);
- Protocollo 12 (divieto generale di discriminazione).
Anche in rete non sono mancati gli appelli di Mosca volti ad incrementare l’attenzione globale sul tema relativo all’approvvigionamento idrico della Crimea. Come si evince dalla Fig. 4, infatti, anche sui social (nello specifico, Twitter) la questione veniva affrontata sotto il profilo del mancato rispetto dei diritti umani. Ciò a riprova del fatto che la strategia diplomatica del Cremlino si è basata totalmente sulla presunta infrazione ucraina in merito al diritto fondamentale all’accesso all’acqua.
Da un punto di vista giuridico, gli appelli russi erano quasi certamente destinati a cadere nel vuoto. Non è un certo un caso, infatti, che tutte le corti presso cui Mosca si è rivolta abbiano dato esito negativo. Questo perché, in punta di diritto, le pretese russe erano e restano molto deboli. La questione idrica crimeana, a norma di legge, non attiene al diritto ma alla politica internazionale. Considerato che la Crimea è internazionalmente riconosciuta come parte dell’Ucraina occupata in maniera illegale dalla Russia, è la legge sull’occupazione territoriale – la cosiddetta Quarta Convenzione di Ginevra – a definire chiaramente quali sono gli obblighi dell’occupante, che ha la responsabilità di garantire il benessere delle persone che vivono in quel territorio occupato. Dunque, la responsabilità che la popolazione della Crimea abbia accesso all’acqua compete esclusivamente alla Russia in quanto Stato occupante non riconosciuto. Inoltre, anche per quanto riguarda la denuncia di violazione dei diritti umani, Mosca ha pretese flebili. Una violazione di tale entità si applica solo nel caso in cui l’acqua venga a mancare per i bisogni umani di base, che si estrinsecano nell’impossibilità di lavarsi, cucinare o bere. Non certo se il quantitativo idrico indisponibile serve per fornire le risorse necessarie per gestire una produzione agricola massiccia o la coltivazione di riso.
In risposta alla battaglia legale intrapresa da Mosca, l’Ucraina non è rimasta a guardare. Kiev, sostiene che il NCC è stato bloccato perché la nuova leadership in Crimea smise unilateralmente di pagare le bollette dell’acqua dopo che la penisola era diventata parte integrante – de facto ma non de jure – della Russia. Le autorità ucraine hanno anche affermato che la struttura necessitava di un’importante manutenzione prima di poter essere riaperto e che non vi era alcun tentativo da parte russa di collaborare con loro per riparare il canale. Ed in effetti, non appena la penisola passò sotto il controllo di Mosca, il Cremlino rimpiazzò il personale ucraino addetto alla gestione del canale con tecnici crimeani e russi che non avevano nessun contatto con Kiev. Ciò contribuì ad incancrenire una situazione resa già oltremodo complessa dal passaggio, ex abrupto, della Crimea dall’amministrazione ucraina a quella russa.
Conclusione
La questione idrica crimeana ha avuto senza dubbio un ruolo rilevante nella motivazione che ha spinto i Russi ad attaccare lo scorso 24 febbraio. Dopo il fallimento della strategia giuridica presso vari consessi internazionali e con un esborso economico esorbitante per la gestione di una Crimea senz’acqua, Mosca ha optato per la guerra. Poche ore dopo l’invasione, le truppe russe hanno fatto saltare la “diga di sbarramento” nell’oblast di Kherson, ristorando di fatto il flusso verso valle garantito dal NCC ed irrorando del prezioso oro blu le aride pianure della penisola. Dunque, sotto un profilo di mera concretezza, l’aggressiva strategia bellica del Cremlino ha sbloccato una situazione critica sia per il governo locale della Crimea sia per l’immagine di buon governo propagandata da Mosca, gravemente compromessa a seguito della contromossa ucraina. Tuttavia, occorre segnalare che la risoluzione di un conflitto idrico attraverso misure militari non è certamente ideale. La guerra dell’acqua tra Russia ed Ucraina – inspiegabilmente poco trattata nel dibattito pubblico e sui principali media nazionali – costituisce un preoccupante tentativo di risoluzione delle controversie ambientali interstatali tramite il ricorso alla violenza.
Sono molti i casi in cui Paesi coinvolti in tensioni di varia natura gestiscono a livello tecnico le risorse idriche che si trovano loro malgrado a condividere[11]. Si tratta di una gestione congiunta volta, quanto più possibile, ad usufruire della risorsa e a mantenere la pace. Questo modello prevede la creazione di un’autorità locale costituita da un piccolo comitato misto formato da personale tecnico di entrambi i Paesi. Il comitato, dotato di piena legittimità per la gestione, si riunisce regolarmente, prende decisioni, delega compiti ed esegue le misure con scarse o nessuna segnalazione alle autorità superiori. In tal modo, la politica resta fuori dalla questione, impedendo l’insorgenza di tensioni e stimolando rapporti di fiducia tra i membri del comitato mentre si trovano a lavorare a stretto contatto. Tale modello di cooperazione – pensato peraltro in era sovietica – è ancora in uso nel caso della diga di Arpacay (tra Armenia e Turchia) e della diga di Stanca-Contesti (tra Moldova e Romania), ben tre decenni dopo lo scioglimento dell’URSS. In entrambi questi casi, comitati locali amministrano la regolazione del flusso idrico con risultati soddisfacenti, senza che la questione venga tirata in ballo per esacerbare i rapporti politici e diplomatici.
Le tensioni tra Russia ed Ucraina, sfociate in una vera e propria guerra di aggressione da parte di Mosca, hanno radici profonde che esulano dalla mera questione idrica, ancorché di primaria importanza. Detto questo, come analizzato in questo paper, l’acqua, o meglio la mancanza d’acqua, ha rappresentato un elemento di grave tensione per la Russia e ha contribuito senza dubbio ad esacerbare gli animi. In virtù di ciò, appare quantomai necessaria una presa di coscienza da parte del Cremlino e del governo di Kiev che l’acqua non può e non deve essere utilizzata come strumento bellico. Alla luce dei grossi disagi patiti dalla popolazione crimeana a seguito della costruzione della “diga sbarramento”, sarebbe auspicabile che le due nazioni in guerra adottassero un approccio responsabile nella gestione dell’acqua in Crimea. Se, infatti, la Russia ha la responsabilità principale di aver scatenato un attacco militare su vasta scala, con la creazione della diga sul NCC l’Ucraina ha acuito sensibilmente le tensioni già molto forti con i Russi. Si segnala, inoltre, che a seguito del blocco del flusso idrico verso valle, Kiev ha condannato due milioni di suoi ex cittadini (de facto) a soffrire di ripetuti casi di stress idrico, dimostrando in tal modo un realismo politico poco prudente.
La crisi idrica crimeana sarà definitivamente risolta quando il canale artificiale costruito in epoca sovietica sarà libero e operativo. Per realizzare ciò, è necessario che i due Paesi contendenti istituiscano un protocollo d’intesa in cui la gestione dell’infrastruttura venga demandata a tecnici locali animati da spirito di cooperazione.
[1] D’altra parte, è noto che tutta la regione in questione è conosciuta per la fortissima produzione di cereali.
[2] Per avere un’idea dell’estensione del Dnepr si consideri che il Po, principale corso d’acqua presente sul suolo italiano, ha un bacino idrico di circa 71.000 km², ovvero oltre sette volte inferiore rispetto al grande fiume che nasce in Bielorussia e che attraversa tutto il territorio ucraino prima di sfociare nel Mar Nero.
[3] Per ulteriori dettagli sulla vicenda si rimanda a: https://www.ejiltalk.org/the-proceedings-flow-while-water-does-not-russias-claims-concerning-the-north-crimean-canal-in-strasbourg/.
[4] Per maggiori dettagli si rimanda all’opera, tra le altre, di V. A. Vasilenko, Hydro-economic problems of Crimea and their solutions, in «Geography of Resource Use Management», pp. 89-96, 15 marzo 2017.
[5] I. Izotov, The State Duma will consider a problem of ecocide of Crimea, in «Rossiiskaya Gazeta», 2015.
[6] https://www.newsecuritybeat.org/2022/03/hydropolitics-russian-ukrainian-conflict/.
[7] https://www.newsecuritybeat.org/2022/03/hydropolitics-russian-ukrainian-conflict/.
[8] https://www.ejiltalk.org/the-proceedings-flow-while-water-does-not-russias-claims-concerning-the-north-crimean-canal-in-strasbourg/.
[9] La Convenzione delle Nazioni Unite sui corsi d’acqua transfrontalieri e sui laghi internazionali è reperibile al seguente link: https://unece.org/DAM/env/water/pdf/watercon.pdf.
[10] La dichiarazione relativa alle Norme di Berlino sulle risorse idriche è reperibile al seguente link: http://www.cawater-info.net/library/eng/l/berlin_rules.pdf.
[11] A tale riguardo, ci siamo recentemente occupati dello spinoso caso della GERD etiope e delle relative tensioni internazionali.