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Le politiche idriche dell’Arabia Saudita

Novembre 28, 2021

* L’immagine di copertina di questo report è stata presa dal sito Fanack Water, consultabile al seguente link: https://water.fanack.com/saudi-arabia/

Un’enorme landa desertica e petrolio in abbondanza. Queste sono le prime caratteristiche che solitamente vengono in mente quando si fa riferimento all’Arabia Saudita. In una certa misura, entrambe queste informazioni sono corrette, anche se incomplete. Si tratta infatti di uno dei Paesi più inospitali del pianeta livello climatico con una temperatura annuale media di circa 32 gradi centigradi e tassi di precipitazioni davvero scarsi, tra i 50 e 75 mm all’anno. A livello petrolifero, il grande Regno arabo possiede circa un quarto delle riserve di greggio comprovate a livello mondiale e ne è il principale produttore ed esportatore. Questi fatti e cifre sono incontrovertibili, di dominio pubblico; per lungo tempo hanno avuto un impatto stereotipato sulle nozioni di geografia afferenti al regno dei Saud, considerato appunto da più parti come un grande territorio perlopiù inospitale che deve la maggior parte delle sue fortune politiche e finanziarie all’indubbia ricchezza del proprio sottosuolo. Tuttavia, non tutti sanno che il sottosuolo dell’Arabia Saudita è sì ricco di “oro nero”, ma anche di acqua. Ebbene sì, le falde freatiche saudite contengono miliardi di metri cubi d’acqua, retaggio di milioni di anni fa quando tutta la penisola arabica era un’enorme distesa verdeggiante in cui foreste, laghi e fiumi erano molto diffusi.

Già da qualche anno Ryad ha raggiunto un’inaspettata autosufficienza agricolo-alimentare. Nel corso degli ultimi tempi, i Sauditi sono diventati addirittura degli esportatori netti di prodotti agricoli. Il motivo di un tale risultato, per certi versi sbalorditivo, è dovuto in larga parte alle politiche idriche che sono state implementate nel corso degli ultimi decenni. Le strategie adottate, soprattutto incentrate sulla desalinizzazione su vasta scala e sullo sfruttamento massiccio di falde acquifere antichissime, ha in effetti apportato degli indubbi benefici sia sul piano sociale sia su quello economico. Nondimeno, sono molti gli interrogativi che sorgono in merito alla sostenibilità di tali politiche idriche, improntate all’ottenimento di effetti di medio-breve periodo con poco interesse nel lungo periodo.

Autosufficienza idrica ed esportazione agricola: un successo saudita

Secondo vari report, entro il 2050 l’attuale popolazione dell’Arabia Saudita, che attualmente conta 34 milioni di individui, si attesterà attorno ai 77 milioni (1). Tali previsioni sono note già dai primi anni Duemila, quando cioè la popolazione del Regno iniziò a crescere con una certa regolarità. Ciò ha posto la casata reale saudita davanti ad un dilemma: continuare ad importare prodotti agricoli in cambio di petrolio, cosa che è stata fatta più o meno fino agli inizi degli anni Novanta, oppure investire nella ricerca di metodi più sostenibili ed autosufficienti di produzione agricola. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, i Sauditi sono stati importatori netti della quasi totalità (80%) delle derrate alimentari necessarie per il sostentamento della propria popolazione. Il motivo principale di ciò era dovuto alla mancanza di sostanziali alternative. La desalinizzazione stentava ad affermarsi e lo sfruttamento intensivo delle falde acquifere iniziò solo a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Consci della sfida demografica e sociale che attendeva il Paese negli anni successivi, i reali sauditi iniziarono col tempo a cambiare rotta e a gettare le basi per l’autosufficienza alimentare. Il primo passo in tal senso fu l’adozione di una vera politica idrica che fosse in grado di garantire in un tempo non troppo lungo dei risultati soddisfacenti. Ed in effetti, stando almeno ad una prima lettura dei dati, attualmente Ryad è non solo totalmente autosufficiente, ma è anche in grado di garantire ad un crescente numero di Paesi, sia in Africa sia in Asia, un’esportazione agricola di tutto rispetto.

Il primo pilastro delle misure idriche saudite è stato l’utilizzo su vasta scala dei dissalatori. L’abbondanza di acqua marina garantisce alla penisola arabica, essendo circondata dal mare in ben tre larghi tratti, un’ampia disponibilità di risorse idriche di tipo marino. Una volta che la desalinizzazione industriale è divenuta una misura diffusa nel contesto globale, Riad ne ha fatto ampiamente uso. Questa situazione è fotografata bene dai numeri. La Saline Water Conversion Corporation (SWCC), azienda saudita fondata nel 1974, è la più grande società di desalinizzazione dell’acqua di mare al mondo. La SWCC ha circa 30 grandi impianti di dissalazione che operano su tutto il territorio nazionale, dispone di oltre 4.000 chilometri di acquedotto, dà lavoro a circa 10.000 Sauditi, è il secondo più grande provider di energia elettrica del Regno ed ha un valore commerciale superiore ai 20 miliardi di dollari.

Fig. 1: Logo della Saline Water Conversion Corporation
                 
Fig. 2: Principali dissalatori in Arabia Saudita
https://alj.com/en/perspective/greatest-challenge-face/

Numeri impressionanti che testimoniano quanto la desalinizzazione sia importante nelle dinamiche socio-energetiche del Regno. Gli impianti gestiti dalla SWCC producono più di tre miliardi di metri cubi d’acqua potabile al giorno, riforniscono del 70% il fabbisogno idrico di tutte le città saudite e giocano un ruolo primario anche per quanto riguarda l’impiego di risorse idriche non saline nell’industria nazionale. In sostanza, la Saline Water Conversion Corporation è un colosso che ha consentito a Riad di poter contare su molta acqua dissalata impiegata nei settori più disparati.

Se la SWCC ha avuto un impatto principalmente nelle città e nella produzione di energia elettrica, lo sfruttamento delle ricche falde acquifere saudite ha invece garantito al Regno un’ulteriore fonte idrica da impiegarsi soprattutto nelle campagne. Il secondo pilastro delle politiche di Riad per ciò che concerne l’acqua è proprio l’utilizzo delle falde freatiche per reperire il prezioso liquido e utilizzarlo in fase di irrigazione. I primi grandi giacimenti di acqua sotterranea vennero scoperti alla fine degli anni Sessanta, quando alcune compagnie petrolifere vennero incaricate dal governo di esplorare il sottosuolo alla ricerca di greggio. Oltre a quest’ultimo, i tecnici trovarono vastissime aree sotterranee in cui l’acqua abbondava. Mediamente, le falde acquifere da cui era possibile attingere l’acqua avevano una profondità stimata tra i 250 e i 450 metri (2); ciò vuol dire che si aveva la possibilità di usare l’acqua intrappolata tramite l’ausilio di semplici pozzi. In virtù di questa importante scoperta vennero costruiti molti piccoli e medi pozzi da cui era possibile reperire l’acqua senza particolari tecniche ingegneristiche.

Inizialmente, la scoperta di vaste falde freatiche creò un po’ di incertezza nella politica saudita. Dopo aver individuato un’inaspettata e ricca fonte idrica bisognava necessariamente avere le idee chiare su come impiegarla, soprattutto in vista della produzione agricola. Fino a qualche decennio fa, i datteri erano il prodotto “principe” del settore agricolo saudita. Questo perché si tratta di un frutto da palma che richiede poca acqua per crescere e che garantisce un importante sostentamento energetico. Dopo la scoperta dei giacimenti d’acqua sotterranei erano cambiate le “regole di ingaggio”, le risorse su cui poteva contare Riad erano aumentate esponenzialmente. Ciò imponeva una vera e propria pianificazione agricola, cosa che non si era mai verificata fin dalle origini del Regno a causa delle scarsissime riserve d’acqua su cui potevano contare i contadini sauditi.

Dopo qualche anno di incertezza, la casata reale decise di investire non tanto nella produzione di alcuni prodotti agricoli specifici ma nell’impiego di una specifica tecnica di irrigazione: la Center Pivot Irrigation (irrigazione a perno centrale). Inventato nel 1940 dal contadino statunitense Frank Zybach, questo metodo utilizza un sistema meccanico composto da un tubo mobile, rotante attorno ad un punto fisso, dal quale fuoriesce l’acqua con la tecnica dell’irrigazione a pioggia. In questo modo si ha la possibilità di circoscrivere il terreno che si vuole coltivare e di impiegare delle moderate risorse idriche per produrre un determinato prodotto agricolo. L’Arabia Saudita si è servita in maniera copiosa di questa tecnica per diversificare la propria produzione di derrate alimentari, evitando di concentrarsi sui pochi prodotti che sarebbero stati coltivati con metodi tradizionali. Come si può vedere nella Fig. 3, a partire dalla fine degli anni Ottanta Riad ha fatto ampiamente riscorso alla Center Pivot Irrigation allo scopo di garantire ad una crescente popolazione vari prodotti agricoli.

Fig. 3: Diffusione della Center Pivot Irrigation in Arabia Saudita dal 1987 al 2012 https://pagina22.com.br/2012/04/03/sauditas-extraem-agua-fossil-para-plantar/

Per utilizzare un perno centrale, il terreno deve essere ragionevolmente piatto o ondulato. Da questo punto di vista il deserto arabico è perfetto in quanto si tratta principalmente di una vastissima area semi-pianeggiante con alcuni rilievi montuosi, soprattutto presenti nella parte occidentale. Tali rilievi (i monti dell’Hegiaz), tra l’altro, impediscono alle correnti africane di penetrare all’interno della penisola arabica e costituiscono di fatto una naturale barriera che limita fortemente le precipitazioni. 

Fig. 4: Penisola Arabica vista dal satellite con particolare focus su Arabia Saudita https://www.kaskus.co.id/thread/57e37885d9d7707b3a8b4567/15-negara-paling-strategis-secara-geografis-di-dunia/
Fig. 5: Mappa dell’Arabia Saudita con rilevanza sui Monti Hejaz

Come si evince nella Fig. 5, la parte costiera della penisola, ovvero quello stretto lembo di terra situato tra i monti dell’Hegiaz e il Mar Rosso, è la zona più fertile del Paese dove si concentra la quasi totalità di terre coltivabili con metodi tradizionali. La presenza di falde freatiche a nord-est e nella parte meridionale ha consentito lo sviluppo di una solida produzione agricola.

La Center Pivot Irrigation ha una caratteristica molto ben riconoscibile: in virtù della peculiare tecnica di irrigazione i campi coltivati risultano spesso in cerchi geometrici quasi perfetti.

     Fig. 6: I caratteristici “cerchi di grano” frutto della Center Pivot Irrigation https://greenbusinesspost.com/arabia-saudita-mostra-que-nao-existe-limites-para-agricultura/

Tale tecnica, oltre ad assicurare un risultato esteticamente gradevole, garantisce alti tassi di efficienza produttiva. Da circa quindici anni l’Arabia Saudita è totalmente autosufficiente da un punto di vista agricolo-alimentare. La scoperta e il conseguente sfruttamento delle antiche falde freatiche, insieme all’adozione del Center Pivot Irrigation, hanno costituito la combinazione perfetta in questo senso.

Gli ottimi risultati in termini di produzione agricola hanno consentito ai Sauditi di raggiungere altri due importanti successi. Prima di tutto, come già accennato in precedenza, dopo aver soddisfatto il mercato interno, Riad è ormai un affidabile esportatore di vari prodotti, tra cui grano, latte e latticini, carne e uova. Ciò è stato favorito dai grandi investimenti che ha realizzato il governo per migliorare le strade rurali e le vie di comunicazione che mettono in contatto i porti con i luoghi di produzione agricola. Non solo merci alimentari ma anche altri tipi di prodotti, come i fiori, vengono regolarmente esportati dall’Arabia Saudita verso il Corno d’Africa e il Sudest asiatico. Secondariamente, proprio in virtù dell’alta produzione agricola garantita dai fattori che abbiamo citato, i Sauditi sono stati in grado di cambiare le abitudini alimentari della propria popolazione. Per certi aspetti, soprattutto a livello socio-antropologico, si tratta di un risultato persino più importante dell’esportazione agricola che contraddistingue Riad da un po’ di anni a questa parte. Oggigiorno la dieta dei Sauditi è composta di verdure in abbondanza, latte, uova grano, pollame e vari tipi di carne. Tutto questo sembra incredibile se raffrontato a pochi decenni fa, quando la stragrande maggioranza di questi prodotti veniva importata da Paesi terzi e, conseguentemente, aveva un costo che solo poche famiglie potevano permettersi. In passato, le principali pietanze che potevano essere reperite facilmente in loco erano i datteri, l’uva del deserto e carne di dromedario. Certo, le importazioni immettevano nel mercato interno saudita altri generi alimentari, per cui si aveva comunque un’ampia possibilità di scelta. Tuttavia, come detto, non si trattava di prodotti nazionali ma di beni di importazione. In virtù delle nuove tecniche di irrigazione e dello sfruttamento dei vasti giacimenti idrici presenti nel proprio sottosuolo, l’Arabia Saudita oggi può garantire alla crescente popolazione una vasta gamma di prodotti agricoli generati interamente all’interno dei confini nazionali.

Desalinizzazione e sfruttamento delle falde acquifere: gli aspetti critici

I descritti risultati raggiunti dall’Arabia Saudita sotto il profilo idrico e alimentare negli ultimi anni sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, per onor di verità è opportuno segnalare una serie di criticità che queste audaci politiche idriche hanno causato a livello ambientale e diplomatico. Prima di tutto, si tenga presente che l’elevato uso di dissalatori industriali genera alti tassi di inquinamento atmosferico e marino. Per funzionare agli elevati ritmi imposti dalle politiche saudite gli impianti della SWCC operano giorno e notte impiegando altissime quantità di energia fossile. Secondo alcuni studi, circa un terzo del petrolio estratto nel Paese viene utilizzato nella produzione di acqua dissalata (3). Questo dato si presta ad una duplice lettura. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita dispone del carburante necessario per far funzionare la propria industria di desalinizzazione. Essendo una nazione ricchissima di petrolio, i costi di produzione risultano ridotti in quanto vengono impiegate risorse che sono già nella disposizione materiale de Regno. Se, ad esempio, si dovesse procedere all’importazione del greggio necessario per la produzione di miliardi di metri cubi d’acqua giornaliera, i costi di produzione lieviterebbero esponenzialmente rendendo di fatto insostenibile ed inapplicabile il primo pilastro della politica idrica saudita.

D’altro canto, il massiccio utilizzo di una fonte di energia altamente inquinante genera moltissime scorie che producono un serio impatto a livello ambientale. Ad esempio, nel solo 2016 l’Arabia Saudita ha immesso nell’atmosfera più di 517 milioni di tonnellate di CO2, confermandosi uno dei Paesi più inquinanti nel contesto globale (4). I dissalatori sono responsabili in larga parte di questo elevato numero di emissioni. Inoltre, anche a livello marino si riscontrano numerose problematiche legate all’inquinamento. La salamoia, ovvero uno scarto industriale iper-salino derivante dal processo di desalinizzazione, viene regolarmente smaltita in mare visto che altre metodologie di smaltimento renderebbero tutto il processo molto costoso. Ciò causa elevati tassi di inquinamento degli ambienti marini soprattutto in prossimità delle coste e degli impianti di desalinizzazione. Gli scarti che vengono riversati in mare alterano la salinità delle acque causando danni ingenti alla flora e alla fauna marina.

Anche lo sfruttamento massiccio delle falde acquifere verificatosi negli ultimi lustri è da considerarsi preoccupante sotto il profilo della sostenibilità ambientale. L’acqua presente nel sottosuolo saudita, anche se abbondante non è certamente infinita. Anzi, secondo alcuni report pubblicati recentemente, i livelli delle falde freatiche del Regno si sarebbero già ridotti del 15% in seguito al grande impiego degli ultimi anni (5). Trattandosi poi di un Paese dove le precipitazioni annue sono molto scarse, si ha un’oggettiva difficoltà a riempire nuovamente le riserve sotterranee. In sostanza, Ryad sta progressivamente prosciugando le proprie falde freatiche, che contengono acqua fossile depositatasi nel corso dei millenni passati, in virtù degli alti ritmi di estrazione per scopi di irrigazione. Continuando di questo passo si prevede che già verso il 2050, ovvero quando la popolazione saudita toccherà quasi le 80 milioni di unità, l’acqua contenuta nel sottosuolo avrà subìto delle diminuzioni ingenti pari a circa il 40-45% del totale.

L’impiego delle risorse idriche presenti sottoterra comporta anche dei seri problemi a livello di relazioni internazionali, soprattutto se la falda freatica oggetto di sfruttamento ha carattere trans-frontaliero. Con una superficie di 2.149.690 km², l’Arabia Saudita è di gran lunga il Paese più esteso della Penisola arabica (3.237.500 km²). Può capitare che alcune falde acquifere siano in comune con più nazioni che risiedono in questa vasta landa desertica. Quando ciò si verifica possono sorgere tensioni non indifferenti tra i governi dei Paesi coinvolti, i quali cercano di sfruttare quanto più possibile le risorse idriche reperibili sottoterra con pochi riguardi nei confronti dell’altro o degli altri “competitors”. Tra i vari casi che si sono susseguiti nel corso del tempo, in questa sede preme fare riferimento alle tensioni sorte tra Arabia Saudita e Giordania in seguito allo sfruttamento della falda acquifera di Disi. Quest’ultima è un grande giacimento di acqua dolce scoperto nel 1969 durante una missione di studio dell’UNDP (United Nations Development Program). Riad mise subito in pratica una strategia di sfruttamento già a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando cioè il Regno saudita iniziò a prendere seriamente in considerazione l’adozione di politiche idriche più strutturate. Qualche anno dopo anche la Giordania iniziò ad utilizzare l’acqua di Disi per limitare le ricorrenti crisi di approvvigionamento idrico che caratterizzano il proprio territorio.

Fig. 7: Geolocalizzazione della falda di Disi https://books.openedition.org/ifpo/5060
Fig. 8 :  Grandezza approssimativa della falda di Disi https://www.flickr.com/photos/zoienvironment/7535447922

L’uso di questa immensa falda acquifera per un Paese come la Giordania è di particolare rilevanza. Di fatto, Amman è la capitale di uno Stato virtualmente circondato dal deserto (80% del suo territorio) che ha una scarsa capacità di immagazzinare le acque piovane, che peraltro evaporano quasi totalmente. La capitale, principale centro urbano dove si concentra gran parte della popolazione del regno, è per il 40-50% rifornita da acque provenienti dalla Valle del Giordano (pompate attraverso il canale Re Abdullah), dalle falde acquifere di Zarqa e Mafraq, o dalle nuove falde acquifere nel sud (6). È quindi evidente come la Giordania soffra di un’endemica scarsità d’acqua. Inoltre, non disponendo di una capacità industriale e di desalinizzazione paragonabile a quella saudita, la falda di Disi rappresenta una risorsa quasi vitale per la casata reale hashemita.

Naturalmente, non sono mancate nel corso del tempo alcune tensioni tra Sauditi e Giordani in merito alla gestione del grande bacino di acqua fossile. Ryad ha notevoli tassi di pompaggio annuo, pari a circa un miliardo di metri cubi. Idem dicasi per Amman, che attualmente si attesta su circa 800 milioni di metri cubi prelevati ogni anno ma che per tutti gli anni Novanta viaggiava a ritmi molto alti, pari a circa 1.4 miliardi. Tensioni “fredde” tra le due nazioni arabe si sono intensificate quando la Giordania ha iniziato a considerare la possibilità di espandere l’utilizzo della falda di Disi, al fine di rifornire la sua capitale e sostenere lo sviluppo del settore agricolo, dato il sempre minore afflusso di acqua dal fiume Giordano. Secondo i piani di sviluppo giordani, nei prossimi anni dovrebbe essere costruito un acquedotto di circa 325 km, che verrà alimentato da 65 pozzi nel bacino di Disi che si spingeranno a una profondità di 500 metri per trovare l’acqua. Oltre a ciò, un bacino artificiale di 12.000 metri cubi raccoglierà tutta la risorsa idrica prelevata, immagazzinandola prima di passarla alla stazione di pompaggio principale da cui verrà smistata. Questo progetto dovrebbe fornire una media di 100 milioni di metri cubi annui di acqua potabile di alta qualità alla capitale Amman.

L’Arabia Saudita non vede di buon occhio i piani giordani volti ad un maggiore impiego dell’acqua di Disi. Questo grande giacimento ricopre un ruolo importante per tutta la produzione agricola localizzata nel nord del Regno, storicamente molto povero di risorse idriche. Sembra, per il momento, che i due Paesi si siano quasi del tutto ignorati in questa vicenda; le tensioni, percepibili dal clima di malcelato sospetto che ancora oggi caratterizza l’operato saudita e giordano, non sono emerse apertamente. Tuttavia, onde evitare la disorganizzata depredazione di un bacino che non riceve alcuna precipitazione e che dunque è destinato ad esaurirsi in maniera ineluttabile, sarebbe auspicabile che Ryad e Amman cooperino per accordarsi diplomaticamente ed ufficialmente su quanta acqua prelevare ogni anno. Al momento, è consigliabile che entrambi riducano drasticamente il pompaggio nel bacino di Disi. In un secondo momento, sarebbe oltremodo auspicabile che i dignitari dei due Stati intensifichino i colloqui negoziali in merito al quantitativo idrico che intendono prelevare.

Conclusione

Come analizzato in questo report, l’Arabia Saudita negli ultimi decenni è stata in grado di affrancarsi da un problema che molte nazioni mediorientali e africane tutt’oggi presentano: crisi di approvvigionamento idrico. Grazie ad una rilevante capacità industriale, all’impiego di rivoluzionarie tecniche di irrigazione e alla presenza di molta acqua fossile nel proprio sottosuolo, Riad può essere considerata una vera potenza egemone da un punto di vista idrico nel contesto mediorientale. A riprova di ciò, non solo il mercato agricolo interno è stato pienamente sviluppato, ma anche dal punto di vista dell’esportazione i Sauditi possono ritenersi oltremodo soddisfatti.

Tuttavia, questa rosea situazione riserva dei pericolosi effetti collaterali sotto molteplici aspetti. Se dovessimo fare una classifica della gravità di tali effetti probabilmente ci soffermeremmo sull’aspetto relativo alle relazioni bilaterali. Sul fronte ambientale, infatti, pur trattandosi di una condizione seria che merita di essere monitorata costantemente, riteniamo che nel prossimo futuro assisteremo ad un significativo miglioramento. Nuovi impianti di desalinizzazione, meno inquinanti e più eco-sostenibili, vengono immessi nel mercato ogni anno. Teniamo anche conto delle tecnologie ad energia solare che in quelle regioni troverebbero un utilizzo ottimale. Ciò vuol dire che sia sotto il profilo dell’emissione di CO2, sia in ambito marino si dovrebbe intravedere uno spiraglio positivo tra non molto tempo. I nuovi dissalatori non adottano più la tecnica ad “osmosi inversa”, molto impattante sul territorio, ma la cd “distillazione con membrana”, che permette di generare più acqua dissalata a costi di produzione inferiori con un minor impatto sull’ambiente. Inoltre, nuove tecnologie ingegneristiche hanno favorito la costruzione di impianti che useranno energia rinnovabile, soprattutto eolico e solare, al posto del petrolio.

Sotto il profilo delle relazioni internazionali la situazione sembra essere decisamente più seria. La sensazione è che in seguito all’exploit idrico verificatosi negli ultimi decenni, i Sauditi si siano fatti “prendere un po’ la mano”. Il caso della falda di Disi ne è un chiaro segnale. In attesa di concordare una gestione comune con la Giordania, Paese che ha davvero necessità idriche impellenti e che non ha ancora trovato una strategia valida per far fronte a casi gravi di water scarcity, Riad ha dato l’impressione di proseguire in maniera imperterrita a sfruttare la propria porzione di territorio con insufficiente attenzione per il proprio vicino arabo. Ciò per il momento non ha generato crisi diplomatiche degne di nota. Tuttavia, in futuro quando sia la popolazione giordana sia quella saudita cresceranno e, conseguentemente, in previsione di esigenze idriche e agricole maggiori, i problemi potrebbero presentarsi in maniera molto più impellente. Inoltre, la richiesta d’acqua che ha caratterizzato per lungo tempo i Sauditi ha fatto sì che curassero esclusivamente il risultato più immediato con minor attenzione al lungo periodo. Ciò è testimoniato dall’evidente volontà di sfruttare le falde acquifere non solo per produrre beni nazionali ma anche in vista dell’esportazione. L’acqua presente nel sottosuolo dovrebbe essere tenuta in estrema considerazione, un po’ come le riserve auree che ogni banca nazionale custodisce nei caveaux. Apparirebbe saggio che tali riserve vengano usate solo in caso di necessità e non solo in vista di uno sviluppo economico. Similmente, sarebbe opportuno che le falde acquifere venissero utilizzate con morigerata parsimonia, specialmente se si tratta di serbatoi difficili da riempire a causa delle scarse precipitazioni che contraddistinguono l’Arabia Saudita.


(1) Tra il 2015 e il 2020 la popolazione del regno è già incrementata di 5 milioni, a riprova della grande crescita demografica che sta vivendo il Paese da un po’ di anni a questa parte. Per ulteriori dettagli si rimanda a Madeleine Lovelle, Food and Water Security in the Kingdom of Saudi Arabia, in «Future Directions International», 2015.  https://www.futuredirections.org.au/publication/food-and-water-security-in-the-kingdom-of-saudi-arabia/.

(2) https://www.tlirr.com/testimonials/jack-king/.

(3) https://www.tlirr.com/testimonials/jack-king/.

(4) https://www.worldometers.info/co2-emissions/saudi-arabia-co2-emissions/.

(5) Già nel 2015 i livelli si erano abbassati, come testimonia questo studio pubblicato dalla ricercatrice Madeleine Lovelle  https://www.futuredirections.org.au/publication/food-and-water-security-in-the-kingdom-of-saudi-arabia/.

(6) https://www.waterandfoodsecurity.org/scheda.php?id=110#topscheda.

 

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