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Tecniche agronomiche per razionalizzare l’utilizzo dell’acqua in agricoltura

Ottobre 11, 2022

* L’immagine di copertina di questo report è stata presa dal sito Water Footprint Calculator, consultabile al seguente link: https://www.watercalculator.org/footprint/farmers-use-drip-irrigation/

Alla luce della problematica crescente relativa alle risorse idriche nel mondo, risulta opportuno individuare in tutti i campi delle strategie per custodire quelle disponibili e utilizzarle nel modo più efficace possibile. Considerato che il 70% dell’acqua potabile viene sfruttata per irrigare i campi coltivati (stando ai dati messi a disposizione dalla FAO nel 2022), occorre individuare e diffondere pratiche agronomiche volte ad ottimizzare il suo impiego in questo ambito. Dato che ogni ambiente di coltivazione ha delle caratteristiche peculiari, tali tecniche vanno scelte e calibrate opportunamente tenendo conto di molteplici fattori che sono interconnessi.

Fig. 1: Una piccola pianta che riceve la preziosa dose di acqua necessaria per crescere e produrre frutti
https://www.centroverderovigo.com/it/blog/perche-innaffiare-le-piante-anche-in-inverno-48

Prendiamo innanzitutto in esame le conseguenze che ha lo stress idrico sui processi vitali delle piante: quando le piante non trovano nel suolo esplorato dalle loro radici acqua (libera) sufficiente per controbilanciare la traspirazione, entrano in una fase di stasi anabolica, cioè smettono di produrre, avvizziscono e infine disseccano. In base al grado di stress al quale sono sottoposte possono avvenire:

  1. Modificazioni anatomiche. Queste sono dovute al fatto che le cellule non si espandono completamente. In conseguenza di ciò, si ha il nanismo, si accorciano gli internodi, si riduce la dimensione dei germogli, si sviluppa maggiormente l’apparato radicale, le foglie hanno cellule più piccole e pareti e cuticole più spesse, aumenta la lignificazione dei tessuti.
  2. Modificazione dello sviluppo. Per aumentare le probabilità di portare a maturazione i propri semi in condizioni di carenza idrica, le piante cercano di abbreviare il ciclo aumentando la velocità di sviluppo. Gli effetti variano a seconda dell’entità del deficit e del momento in cui questo avviene. Su tale base, si possono avere turbe della germinazione, dell’impollinazione, della fecondazione, cascola dei fiori, dei frutti, delle foglie, e quant’altro.
  3. Modificazioni metaboliche. La fissazione fotosintetica del carbonio diminuisce per la chiusura degli stomi che la pianta realizza per ridurre le perdite di acqua per evaporazione. Questo ha come conseguenza modificazioni del metabolismo che porta ad esempio a maggiori percentuali di saccarosio nella barbabietola e canna da zucchero, di nicotina nel tabacco, di glutine nel frumento, talora certi frutti sono più sapidi. Poiché la sintesi proteica è ostacolata dalla carenza di acqua, questa può indurre accumulo di azoto non proteico (nitrico) nei tessuti. Il danno sulla resa è assai variabile con la specie e con la fase in cui la deficienza la coglie.

Le piante presentano grandi differenze nella tolleranza o nella sensibilità alla carenza idrica. Alcune piante (cosiddette igrofile) esigono addirittura un ambiente sommerso (es. il riso) e quindi non hanno alcuna resistenza alla scarsità di acqua. Altre (piante xerofite) sono dotate di meccanismi di resistenza quali il rapido allungamento in profondità e in estensione dell’apparato radicale (possibile se il terreno è ben lavorato) e attitudine a ridurre la traspirazione. La maggior parte delle piante coltivate appartiene al gruppo delle mesofite che non possono vivere in terreni sommersi e che raggiungono il punto di appassimento dopo aver perso dal 25 al 50% d’acqua, a seconda delle specie. Le piante che si sono evolute in ambienti poveri di umidità dispongono di meccanismi che consentono loro di risparmiare acqua e di sopravvivere a periodi di siccità. Ad esempio, l’olivo è caratterizzato da foglie molto particolari e da un apparato radicale esteso: con le prime riesce a compiere gli scambi gassosi riducendo di molto la perdita d’acqua; e con il secondo si è in grado di esplorare enormi volumi di suolo e di raggiungere in profondità eventuali riserve idriche.

Le colture con un lungo periodo di crescita sono maggiormente colpite dalla siccità. Ne fanno parte le barbabietole da zucchero, le patate, il granoturco e tutte le colture foraggere.

Le barbabietole da zucchero rimangono a lungo nei campi e carenze idriche determinano rese inferiori. Le patate sono molto esigenti e richiedono un’irrigazione regolare, in caso contrario formano tuberi irregolari o smettono di crescere. Il passaggio tra periodi estremi di siccità e pioggia può provocare la rigerminazione o la formazione di tuberi di seconda generazione. I tuberi perdono una parte dell’amido, la polpa diventa vitrea e in magazzino marciscono rapidamente.

Il granoturco ama il clima caldo, ma lunghi periodi di siccità ne frenano la crescita. In alcune zone è aumentato l’interesse per il sorgo poiché in caso di stress idrico è capace di rimanere in stasi vegetativa e di riprendere la crescita in caso di disponibilità idrica, grazie ad un fitto apparato radicale profondo e foglie ricoperte di uno strato di cera.

L’erba medica dispone di un fitto apparato radicale ed è capace di accedere a riserve d’acqua profonde mentre il loglio richiede elevate quantità di acqua. Tra le colture erbacee più resistenti alla siccità ci sono il frumento duro (più resistente rispetto a quello tenero), l’orzo e l’avena precoce; tra i legumi, il cece, la fava e la lenticchia sono più resistenti del pisello e del fagiolo. Per l’orticoltura si prediligono piante come cipolla, aglio, spinacio e patata, quelle più svantaggiate sono sicuramente le cucurbitacee e le solanacee. Tra le piante arboree, le più resistenti sono la vite e l’olivo, seguite dal mandorlo, il fico, il pistacchio e il carrubo.

Scelta delle varietà

Nell’ambito delle diverse specie, inoltre, esistono differenze tra le diverse varietà e, pertanto, la scelta di queste costituisce un primo fattore da considerare per affrontare eventuali limitate disponibilità idriche. Gli elenchi delle varietà di cereali e granoturco contengono dati relativamente precisi sul periodo di maturazione. Le varietà precoci hanno il vantaggio di poter essere raccolte già prima che inizi il periodo di siccità o di violenti temporali e pertanto sono meno soggette a stress rispetto alle varietà tardive, le quali hanno invece più tempo per maturare e approfittano delle annate calde. Negli elenchi delle varietà raccomandate sono attualmente assenti riferimenti a proposito della resistenza alla siccità, poiché la selezione genetica è avvenuta prendendo in considerazione soprattutto l’ottenimento di rese elevate.

In futuro, tuttavia, si stima che la tolleranza alla siccità assumerà sempre maggiore rilevanza e sarà un importante obiettivo di selezione. La ricerca scientifica sta compiendo grandi passi avanti nell’individuare i geni che regolano la risposta delle piante allo stress idrico. Inoltre, lo sviluppo di sistemi informatici sempre più sofisticati sta permettendo di integrare l’enorme mole di informazioni continuamente generata, dando grande impulso all’identificazione dei geni maggiormente responsabili della tolleranza a stress e allo sviluppo di strategie di ingegneria genetica. Occorre tuttavia evitare eventuali introduzioni massicce di varietà modificate perché si correrebbe il rischio di perdere per sempre varietà locali selezionate nel tempo, determinando la cosiddetta “erosione genetica” e la perdita di informazioni valide per affrontare anche futuri eventuali sfide ambientali.

Scelta dell’epoca di semina

Oltre alla scelta delle colture e delle varietà, un altro strumento per evitare alle piante condizioni di stress idrico è costituito dalla scelta del periodo di semina in relazione all’andamento climatico per fare in modo che i periodi di crescita più delicati si realizzino nel momento in cui le precipitazioni sono più probabili e viceversa. Infatti, più che la somma delle precipitazioni è importante la loro distribuzione nell’arco del periodo di crescita. Nel caso della barbabietola da zucchero, ad esempio, sono da preferire le semine autunnali piuttosto che quelle primaverili. Le colture annuali necessitano di acqua soprattutto durante e dopo la fioritura. Nel corso della maturazione i periodi di siccità diventano invece meno importanti. Grazie al periodo di raccolta relativamente precoce, i cereali e la colza in genere sono meno interessati.

Per quanto riguarda le leguminose da granella, la soia è la coltura che approfitta maggiormente dell’aumento della temperatura e che riesce a superare anche lunghi periodi di siccità. I piselli proteici e le fave invece richiedono molta acqua, soprattutto durante la fase della fioritura fino alla formazione dei semi. In tale fase, questi vegetali reagiscono in modo particolarmente sensibile alla siccità; infatti, il fabbisogno di acqua in quel periodo è particolarmente elevato. In caso di semina in primavera la fioritura ha luogo in aprile, mese nel quale da qualche anno sono sempre più frequenti periodi secchi e molto caldi dovuti ai cambiamenti climatici. Le fave e i piselli seminati in autunno fioriscono da tre a quattro settimane prima e sono pertanto meno interessati dalla siccità. Un ulteriore vantaggio delle semine autunnali è la buona copertura del suolo durante l’inverno. Un possibile svantaggio potrebbe essere rappresentato dai danni causati dal gelo in luoghi esposti e ad alte quote che però solitamente si possono evitare seminando ad una profondità tra cinque e otto centimetri e attorno a metà ottobre.

L’utilizzo ottimale dell’acqua disponibile richiede la presenza di una buona capacità di ritenzione idrica del terreno si realizza attraverso la presenza di sostanza organica che, grazie alla sua capacità di idratarsi e all’azione legante tra le particelle del suolo, costituisce agglomerati più stabili preservando la porosità del terreno e creando un equilibrio ottimale tra macropori e micropori. Nei primi si trova l’aria, nei secondi la riserva di acqua che, in realtà, è una soluzione diluitissima di sali minerali. Per questi motivi, tutte le pratiche di gestione del suolo che tendono a incrementare il contenuto di sostanza organica contribuiscono a migliorare la capacità idrica del terreno e ad aumentare, quindi, il risparmio idrico complessivo. Negli ultimi decenni sono state effettuate scelte tecniche volte all’ottenimento di massime rese produttive attraverso l’utilizzo di input chimici più performanti nell’immediato e più economici e semplici da somministrare piuttosto che sistemi mirati alla conservazione della fertilità del terreno. Quest’ultimo, infatti, è stato trattato come un semplice substrato dal quale ottenere i massimi risultati nell’immediato e non come un delicato ecosistema da preservare oltre che utilizzare. Considerati gli stress ai quali le coltivazioni saranno sottoposte a causa dei cambiamenti climatici in corso, risulta importante adottare tecniche rivolte al mantenimento di una buona capacità di ritenzione idrica effettuando la somministrazione della sostanza organica attraverso il letame, il composto ed il sovescio. Occorre, inoltre, reintrodurre la pratica delle rotazioni, inserendo colture idonee ad arricchire il suolo di sostanza organica. Questi, a causa della simbiosi che stabiliscono con i batteri responsabili della formazione dei noduli nelle loro radici, incrementano la presenza di azoto captandolo in stato gassoso dall’atmosfera e lo rendono organicano rilasciandolo poi al terreno.    

Le lavorazioni del terreno costituiscono una pratica importante per ottenere una struttura che consenta alle radici di muoversi e approfondirsi facilmente e quindi andare a utilizzare anche l’acqua presente negli strati più profondi. La presenza di una buona struttura gioca un ruolo importantissimo anche durante violenti nubifragi, quando la portata supera la capacità di infiltrazione dell’acqua. In questi casi, infatti, non solo l’acqua non si accumula nel suolo e viene persa ma possono verificarsi fenomeni di asfissia delle radici e/o ruscellamento superficiale ed erosione del suolo. Questi fenomeni stanno diventando sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici. L’innalzamento globale della temperatura, infatti, oltre a determinare l’incremento dell’evaporazione, determina una modifica della frequenza e dell’intensità delle piogge.

In tale contesto, le lavorazioni del terreno, determinando la rottura degli strati compatti superficiali, incrementano la porosità e quindi la capacità d’invaso. Tuttavia, occorre anche considerare che, quando si lavora il terreno lasciando esposte all’aria le zolle, si determina una perdita consistente di acqua dal suolo, soprattutto se ciò avviene in stagioni caratterizzate da evapotraspirazione medio-alta. È opportuno sottolineare che una maggiore infiltrazione tramite questo metodo di lavorazione non sempre garantisce effetti positivi, almeno nei climi semi-aridi. Ciò a causa del fatto che non tutti gli anni le piogge riescono a ricostituire le riserve così depauperate. Con questo metodo la perdita d’acqua è certa, mentre incerto è il suo ripristino. Più efficaci in tal senso sono quei metodi di lavorazione che lasciano il terreno assestato, come prevedono le minime lavorazioni conservative. In questo caso, anche la presenza di residui colturali in superficie contribuisce a ridurre l’evaporazione e, nel caso di piogge intense, lo scorrimento superficiale dell’acqua. Se l’acqua scorre lentamente sul campo, ha maggiore tempo per penetrare al suo interno. Quando si pratica l’aratura, pertanto, è opportuno farla seguire da un intervento di assestamento del suolo allo scopo di limitare la superficie esposta all’aria e quindi all’evaporazione.

Le lavorazioni superficiali, come ad esempio la sarchiatura, limitano sia la traspirazione – dal momento che controllano le piante infestanti – sia l’evaporazione, poiché modificano positivamente la struttura fisica del terreno, aumentano l’infiltrazione e il drenaggio dell’acqua. La sarchiatura, in particolare, rompe gli strati più superficiali e crea una leggera zollosità che ha un effetto pacciamante. Il pacciame non è altro che un materiale (può essere ghiaia, corteccia, ecc.) da mettere sul terreno attorno alle radici. Un terreno appena sarchiato si disidrata velocemente ma solo nello strato superficiale, mantenendo l’umidità negli strati sottostanti. Durante l’estate, o comunque nei periodi di non coltivazione, è utile eseguire una lavorazione molto superficiale con lo scopo di interrompere la risalita capillare dell’acqua favorendo la formazione di uno strato di terreno superficiale asciutto di pochi centimetri a protezione di quello più profondo, ancora caratterizzato da una certa umidità. Per aumentare in generale la capacità di ritenzione dell’acqua nel suolo si consiglia la semina di sovescio e di prati artificiali che servono a produrre humus e a conferire una struttura migliore al suolo.

Oltre ad agire sulla struttura del suolo, si può agire sulla sua superficie cercando di ridurre le perdite di acqua per evaporazione. Questo può essere ottenuto in diversi modi, a seconda dei diversi contesti:

  • Proteggere il terreno con materiale pacciamante, riducendo così l’energia solare che raggiunge la superficie e diminuendo l’evaporazione diretta. La pacciamatura trattiene l’umidità e scoraggia la crescita di erbacce. Coprendo il terreno con materiale di colore scuro se ne riduce l’albedo e quindi si aumenta la percentuale di radiazione immagazzinata dal terreno sotto forma di calore e viceversa, nel caso in cui si voglia limitare l’evaporazione, è bene usare materiali chiari. La pacciamatura con materiale vegetale o film biodegradabili, in ottica di risparmio idrico svolge un’azione molto importante. Infatti, oltre a impedire la crescita d’infestanti (che potrebbero incidere negativamente sulla riserva d’acqua del suolo) limita enormemente l’evaporazione diretta dal terreno. È quindi una pratica che permette di valorizzare le scorte d’acqua del terreno e quando, com’è uso, è abbinata a sistemi irrigui a manichetta, ridurre il consumo d’acqua d’irrigazione.
Fig. 6: Pacciamatura su un terreno agricolo
https://ilfattoalimentare.it/agricoltura-biologica-bioteli.html
  • La coltivazione a strati di piante via via più basse consente di sfruttare in modo ottimale la superficie del terreno e fa sì che le piante dello strato inferiore siano protette da quelle dello strato superiore e quindi la loro evaporazione sia contenuta.
  • Controllo delle erbe infestanti per contenere la loro competitività nei confronti dell’acqua. Tale controllo va effettuato considerando tuttavia che l’inerbimento intercetta molto bene l’acqua di pioggia, riduce il ruscellamento e facilita la sua infiltrazione negli strati più profondi del terreno.
  • Utilizzare dei frangiventi per frenare i movimenti d’aria intorno alla vegetazione riducendo così la traspirazione. Questi possono essere costituiti da alberi o siepi o da materiale inerte; è stato osservato, ad esempio, che le reti antigrandine riducono fino al 50% le perdite di acqua.
    Il vento causa alternate contrazioni ed espansioni degli spazi intercellulari, e in particolare delle camere sotto-stomatiche, che forzano il ricambio di aria interna, satura, con quella esterna più secca, accentuando così la traspirazione.  I frangiventi “morti” consistono in muretti a secco o in cannicciate (stuoie di canne legate insieme con fil di ferro) oppure in semplici canne infisse nel terreno. Nei frangiventi “vivi” l’azione è esplicata da erbe, arbusti o alberi sia smorzando l’energia cinetica del vento che deviandolo. Grazie ad essi si realizza una forte riduzione dell’evapotraspirazione potenziale; infatti, è stato constatato un incremento di produzione di sostanza secca dovuto all’aumentata attività fotosintetica per l’aumentato numero delle ore della giornata in cui gli stomi stanno aperti. Ciò porta ad una migliore utilizzazione dell’acqua presente nel terreno. Ai frangiventi, pertanto, viene riconosciuta oggi un’importanza notevole come miglioratori e modificatori del microclima, per cui si consiglia di estenderne l’uso il più possibile. A tal proposito, si dovrebbe evitare di abbattere le alberature esistenti limitandolo all’indispensabile e non trasformare zone a forte densità arborea in vaste zone scoperte senza prima effettuare studi sui possibili squilibri dell’alimentazione idrica.

Sistemi d’irrigazione

Per efficienza d’irrigazione si intende il rapporto tra la quantità di acqua utilizzata dalla coltura e la quantità prelevata dalla pompa. Più un sistema è efficiente e maggiore è il risparmio idrico. I sistemi con l’efficienza irrigua più bassa sono quelli per sommersione (25%) e per scorrimento (30-40%). Se eseguita per solchi, questa tecnica può garantire un’efficienza del 50%; questi due sistemi provocano inoltre una significativa lisciviazione dei nutrienti. I sistemi irrigui per aspersione, detti anche “a pioggia”, sono caratterizzati da un’efficienza compresa fra il 70 e l’80%. Richiedono molta energia poiché l’acqua è espulsa ad alta pressione. Possono essere impianti fissi (come nei frutteti, dove però svolgono anche funzioni di mitigazione delle temperature) o più spesso mobili basati sul rotolone, pivot o ranger. I sistemi d’irrigazione più efficienti sono quelli che distribuiscono l’acqua in prossimità della pianta (85-90%), vicino alla base di questa o vicino alle sue radici. In tal modo, tutta l’acqua raggiunge il terreno anziché depositarsi sulla parte epigea della pianta dove evapora con grande facilità.

Fig. 7: Impianto di irrigazione interna “a pioggia”
https://www.casaegiardino.it/giardinaggio/come-scegliere-il-sistema-di-irrigazione-interna.php

Esistono molte soluzioni che consentono di adottare questo sistema su impianti e macchine convenzionali, sostituendo il distributore a pioggia con dispositivi che portano sotto chioma o direttamente al suolo l’acqua. L’ irrigazione a goccia costituisce quindi il sistema più efficiente anche se non è semplice da utilizzare quando la topografia del suolo è irregolare e la qualità dell’acqua è tale da generare nel tempo delle occlusioni degli ugelli. Ultimamente, è stata messa a punto una nuova tecnologia che prevede dei gocciolatori auto-copensanti in caso di topografie complesse e in pendenza che, all’interno di un definito range di pressioni, mantengono una portata costante e che sono dotati di un sistema autopulente che permette l’utilizzo sia di acque dure che di digestato. Questo è costituito dallaporzione di biomassa non completamente assorbita al termine del processo fermentativo volto alla produzione di biogas a partire dalla sostanza organica. Il digestato viene separato in una frazione solida ed in una liquida e può essere somministrato alle colture per fornire azoto, fosforo e potassio. I giocciolatori in grado di autopulirsi permettono pertanto una contemporanea irrigazione e concimazione.

Dato che la frazione chiarificata del digestato contiene un tenore di azoto ammoniacale molto elevato, il rischio di perdite dovute alla volatilizzazione dell’ammoniaca è molto alto. Queste perdite, oltre a ricadere sull’ambiente, diminuiscono in modo notevole il potenziale nutritivo del digestato che viene distribuito. Infatti, le perdite ammoniacali si traducono in una minore disponibilità di azoto ammoniacale nel suolo nei confronti delle colture, diminuendo drasticamente l’efficienza di distribuzione.

Riciclo delle acque reflue

A proposito di utilizzo di residui nell’ambito agricolo, ai fini dell’ottimizzazione dell’utilizzo della risorsa idrica, riciclare l’acqua reflua urbana ed utilizzarla in agricoltura può contribuire ad alleviare i problemi legati alla scarsità dell’acqua e a ridurne l’inquinamento. Tuttavia, secondo un recente rapporto della FAO, è opportuno sottolineare che tale pratica non è attualmente diffusa quanto dovrebbe. Trattandosi di acque derivanti dalle attività umane – domestiche, industriali o agricole – prima di essere utilizzate per l’irrigazione, devono essere necessariamente depurate perché contengono sostanze organiche ed inorganiche che possono essere dannose per la salute e l’ambiente. Il riutilizzo sicuro delle acque reflue per la produzione alimentare può contribuire ad alleviare la competizione tra città e settore agricolo per l’uso dell’acqua.

Per quanto la realizzazione di adeguati sistemi per il trattamento e il riciclaggio delle acque reflue comporti sia investimenti capitali a monte, sia costi operativi costanti, il maggior vantaggio di tali schemi dovrebbe essere la maggior disponibilità di acqua potabile per il consumo umano nelle città o per uso industriale. I costi potrebbero essere compensati riutilizzando il biogas prodotto dai processi di trattamento dell’acqua come fonte di energia, o anche potenzialmente con la vendita di crediti energetici. La possibilità di riutilizzare le acque reflue in agricoltura dipende dalle circostanze e dalle condizioni locali, che influenzano la bilancia di costi e benefici. 

Destinazione produttiva dei terreni agrari

In vista dell’opportuna razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse idriche, occorre anche considerare l’ottimizzazione della destinazione produttiva dei terreni agrari, tenendo conto che il quantitativo necessario per produrre proteine vegetali è di gran lunga inferiore a quelle per produrre proteine animali. Infatti, per produrre un chilo di mais, vengono impiegati 900 litri d’acqua che è poco in confronto ai 3.000 litri che vengono impiegati per la produzione di un chilo di grano. Per produrre un chilo di carne di pollo se ne impiegano 3.900 litri, per un chilo di carne di suino quasi 6.000 litri mentre per un chilo di carne bovina, proveniente da un animale che cresce molto più lentamente, ce ne vogliono addirittura 15.500. In situazioni di carenza idrica è quindi opportuno scegliere adeguatamente la destinazione produttiva dei terreni tenendo conto anche di questi calcoli.

Inquinamento delle acque causato dall’agricoltura

Un altro aspetto importante da considerare relativamente al rapporto tra acqua ed agricoltura è il carico inquinante che deriva dall’utilizzo di fertilizzanti, anticrittogamici e dal loro trasporto nelle falde freatiche e nei canali di drenaggio attraverso l’acqua piovana e l’irrigazione. A questi ultimi si aggiungono ormoni, vaccini ed antibiotici quando si considerano anche gli allevamenti. Questo fenomeno determina danni ambientali ed insorgenza di malattie nella popolazione. Nel calcolo dei costi necessari alla produzione alimentare, occorre, pertanto calcolare l’elevato costo ambientale e sanitario che l’utilizzo di input chimici determina. Come visto nei paragrafi precedenti a proposito delle tecniche agronomiche volte all’utilizzo razionale dell’acqua, anche per quanto riguarda il contenimento di questa grave problematica è raccomandato l’utilizzo di pratiche agronomiche che prevedano un utilizzo contenuto di input chimici e l’adozione di sistemi che permettano l’ottenimento di rese elevate con sistemi meno impattanti che rispettino la salute dell’uomo e dell’ambiente e conservino la fertilità del suolo.

Sia da un punto di vista ambientale che economico, il contenimento della carica inquinante presente in queste acque è opportuno che sia trattata a monte. Infatti, più ci si allontana dall’azienda agraria e maggiore è il costo relativo al loro trattamento. Diverse sono le tecniche per depurare tali acque; tra queste vi è quella delle zone umide in alveo o fuori alveo. Tale tecnica non è ancora molto diffusa in Europa (alcuni interventi esistono in Inghilterra e Svizzera, ma un caso sperimentale è stato realizzato anche nei pressi di Chioggia in Italia) ma è ormai consolidata in America e in Australia. Tali sistemi puntano a “trattare” i carichi inquinanti che hanno già raggiunto il corso d’acqua: per questo si realizzano in genere quando non è possibile, o non è sufficiente, intervenire “a monte”, riducendo i carichi alla fonte. La struttura delle zone umide in alveo è costituita da un dissipatore di energia iniziale, seguito da una zona profonda ad acqua libera per favorire la sedimentazione, e da un sistema di fitodepurazione che occupa la maggior parte della superficie disponibile. Il sistema di fitodepurazione è generalmente del tipo “free water” (a superficie libera). Se l’obiettivo principale è, come in tutti i progetti analizzati, di rimuovere l’azoto e il fosforo, possono presentare una struttura molto più semplice e più “naturale”.

Le specie vegetali usate saranno principalmente macrofite emergenti (Tipha spp. e Phragmites australis che risultano tra le specie più diffuse e presentano un’ottima capacità di assimilazione dell’azoto) o sommerse. Le zone umide fuori alveo possono essere realizzate sia per trattare una quota della portata ordinaria (in questo caso sono sempre attive e ricevono una portata costante) sia per trattare le sole portate di piena: in quest’ultimo caso la loro realizzazione è finalizzata, in genere, alla laminazione e solo secondariamente hanno funzione depurativa. La struttura della zona umida è sostanzialmente analoga a quella “in alveo” ma differisce per il sistema di alimentazione, che è realizzato in modo da sottrarre solo una parte della portata al deflusso. Una classificazione di questo tipo di intervento può essere basata sul tipo di alimentazione:

  • Alimentazione continua: le zone umide vengono alimentate immettendo nel sistema una frazione della portata complessiva del corso d’acqua (in questo caso la zona umida è alimentata costantemente e l’efficienza di rimozione degli inquinanti, dipendente dal tempo di ritenzione, è massima).
  • Alimentazione discontinua, attraverso un funzionamento “a soglia” (in questo caso invece la zona umida è per gran parte “vuota” e si riempie solo in occasione delle piene, per cui, i volumi annui di acqua “trattata” dalla zona umida sono normalmente molto minori, rispetto al caso in cui la zona umida sia alimentata continuamente e, di conseguenza, minore è l’efficacia di rimozione degli inquinanti).

Conclusioni

Le tecniche agronomiche prese in esame in questo report, mirate all’utilizzo ottimale delle risorse idriche in agricoltura, devono essere scelte e modulate con accortezza in relazione ai diversi ambienti in cui si opera ed al contesto produttivo, sociale ed economico. In vista delle impegnative sfide da affrontare legate alla carenza idrica, non esistendo soluzioni predefinite valide per ciascun territorio, sarebbe quanto mai opportuno che le istituzioni preposte realizzassero, in territori circoscritti omogenei, delle aziende sperimentali-dimostrative in cui mettere a punto le migliori tecniche da adottare[1] in quel contesto specifico e dimostrarle agli imprenditori agricoli operanti in quel territorio. Sarebbe opportuno, pertanto, predisporre una rete di divulgatori agricoli in grado di gestire tali aziende e di diffondere le metodiche messe a punto. Questo consentirebbe anche il coordinamento degli operatori del settore che potrebbero condividere le strategie da adottare riducendone anche il costo. La popolazione mondiale sta aumentando e, contemporaneamente, crescono le sfide idrico-agricole alle quali si dovrà andare incontro; la condivisione delle conoscenze e la cooperazione consentiranno di utilizzare le risorse naturali in modo ottimale.

Bibliografia

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  • S. Grillo, A. Blanco, L. Cattivelli, I. Coraggio, A. Leone 2006. Risposte genetico-molecolari delle piante a carenza idrica.
  • S. Moricca, B Ginetti 2013 – Risorse idriche e salute delle piante.
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  • D. Renard; D. Tilman, 2019. National food production stabilized by crop diversity. Nature Plants.
  • K. Zimmerer; S. De Haan, 2017. Agrobiodiversity and sustainable food future. Nature Plants.
  • Rapporto FAO del 2010 sull’utilizzo delle acque reflue.

[1] Epoche ottimali di semina, scelta delle varietà, metodi di lavorazione, tecniche d’irrigazione, eventuale opportunità di predisporre frangivento, eventuale uso di pacciamatura reperibile in loco ecc.

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